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Dal disagio lavorativo al benessere organizzativo - La strategia comunitaria per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro

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di Maria Grazia De Angelis (Presidente Associazione Italiana di Studio del Lavoro per lo Sviluppo Organizzativo, dirigente  esperto di organizzazione" 

"Un’organizzazione e un ambiente di lavoro sani e sicuri sono fattori che migliorano le prestazioni dell’economia e delle imprese. La non qualità del lavoro si traduce in una perdita di capacità produttiva per l’economia e in spese per indennizzi e in prestazioni il cui finanziamento pesa in larga misura sulle imprese (….) . La strategia comunitaria per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro deve pertanto accompagnare tali trasformazioni e tali nuove esigenze nei diversi Paesi, al fine di promuovere un vero benessere sul luogo di lavoro, che sia quanto fisico quanto psicologico e sociale, e che non si misura semplicemente con l’assenza di infortuni o malattie professionali." Le parole della strategia comunitaria 2002-2007  (Commissione delle comunità europee, Bruxelles 11.3.2002 “ Adattarsi alle trasformazioni del lavoro e della società: una nuova strategia comunitaria per la  salute e la sicurezza” seguita alla direttiva quadro europea del 12 giugno 1989 n.391) ancora oggi sembrano astratte nella loro limpida verità;  da un lato, perché ancora così disattese, dall’altro, perché erroneamente ritenute da molti impraticabili.
Per comprendere la valenza, non solo sociale ma anche economica, di quanto affermato dalla Commissione delle Comunità Europee basta riflettere sui dati rivenienti da alcune ricerche. Lo stress legato al lavoro rappresenta la seconda malattia professionale più diffusa nell’Unione Europea dopo il mal di schiena. In Europa ne è affetto un lavoratore su quattro; le donne risultano essere più colpite, ma per entrambi i sessi lo stress può rappresentare un problema in tutti i settori e a tutti i livelli di organizzazione.  Secondo  alcuni dati forniti nel 2002 dalla Commissione Europea, Direzione generale per l’Occupazione e gli Affari Sociali, i costi derivanti dallo stress legato all’attività lavorativa ammontano, in base a stime prudenti, a circa 20.000 milioni di euro all’anno e  il fenomeno riguarda almeno 40 milioni di lavoratori nei 15 stati membri dell’Unione Europea. Nel 2005 più del 20% dei lavoratori dei 25 stati membri dell’Unione Europea ha creduto che la sua salute fosse a rischio a causa dello stress sul lavoro  “Fourth European Working Conditions Survey, 2007”.  
E’ indubbio che l’attività lavorativa e il ruolo occupato nel lavoro svolgono una funzione di rilievo sull’equilibrio generale di una persona. Ciò spiega perché una difficoltà che riguarda il campo lavorativo acquisti una valenza tale da influire sulla realtà individuale anche dal punto di vista psicologico e psicosomatico e perché  lo stress contribuisca a provocare sofferenza umana, malattia e morte e comporta  perdite di produttività e competitività.
Purtroppo sono molti i lavoratori che, a prescindere dal ruolo ricoperto,  non amano il contesto organizzativo e gestionale a cui sono costretti ad uniformarsi in quanto sentono che  non favorisce il proprio benessere, le proprie aspirazioni, né la loro creatività. Avvertono, pertanto,  l’esigenza  di modelli diversi da quelli a cui sono costretti ad omologarsi, modelli che siano basati su un concetto nuovo di lavoro che tenga conto o almeno conosca  le esigenze delle persone, sforzandosi di integrare realizzazione personale e successo economico e al tempo stesso di rispettare le regole che sovraintendono il buon funzionamento del sistema “impresa”.
Secondo la Guida sullo stress legato all’attività lavorativa elaborato dalla Commissione Europea nel 1999, lo stress può essere prevenuto attraverso  i  vari cambiamenti organizzativi concernenti l’orario di lavoro, la partecipazione e il controllo, la quantità di lavoro assegnato, il contenuto del lavoro, i ruoli lavorativi e le prospettive future personali. 
Numerose sentenze e  ricerche confermano quanto affermato nella  Guida. Sebbene sia vero che molti lavori non sono amabili, le principali cause  di disagio lavorativo , ivi includendo stress e mobbing,  derivano soprattutto da specifiche condizioni dell’organizzazione del lavoro:
l’ignorare la valenza  delle condizioni lavorative (disorganizzazione, scarsa chiarezza nella definizione di ruoli e responsabilità, tipologia dell’incarico non corrispondente alla qualifica, inadeguatezza o mancanza di strumenti di lavoro)
l’adottare modalità di relazioni e sistemi di gestione  non adeguati (ignorare la presenza del lavoratore, ostacolarne la vita sociale, adottare atteggiamenti tesi all’umiliazione del lavoratore, svalutare il lavoro svolto, adottare sistemi retributivi e criteri di avanzamento di carriera non equi)
il sottovalutare l’importanza di  “lavorare sull’organizzazione aziendale” per farne un contesto capace di liberare le intelligenze delle persone
l’avallare comportamenti non etici o comunque non allineati con i valori proclamati.
Trattasi questi di aspetti che un’ azienda  attenta a  perseguire l’efficacia e la durevolezza dei risultati dovrebbe avere il massimo interesse a presidiare. Ma in realtà vivere bene o vivere male, vivere in armonia o vivere in perenne discordia con se stessi e con gli altri non rappresenta   solo  un dilemma individuale, relegato alla sensibilità o all’iniziativa  dei singoli manager; ma può dipendere anche  da una precisa  scelta culturale e organizzativa dei vertici aziendali. In particolare, dall’attenzione posta alla distribuzione di  poteri, responsabilità e carichi di lavoro e da come si intende investire in iniziative finalizzate a migliorare la qualità della vita dei dipendenti,  le competenze gestionali della classe manageriale, i sistemi di prevenzione e sicurezza.
E’ innegabile che per troppo tempo l’atteggiamento tenuto dalla classe imprenditoriale negli anni ha condizionato significativamente (spesso anche per mancanza di managerialità)quelle scelte strategiche aziendali che, ponendo la persona al centro del processo lavorativo, puntano ad una crescita della produttività e della qualità del prodotto/servizio  agendo anche sulle modalità organizzative, sulle condizioni di lavoro e pertanto sulla tensione verso il raggiungimento di uno stato diffuso di benessere psicofisico del dipendente.

Va peraltro sottolineato come l’attenzione al problema nei vari Paesi Europei  è stata per anni molto scarsa, anche da parte delle organizzazioni sindacali. Per esempio in Italia, solo in data 9 giugno 2008 e forse solo in quanto sollecitati dal Dlgs 81/08, è stato siglato l’accordo interconfederale per il recepimento dell’Accordo quadro europeo sullo stress lavoro-correlato che era stato concluso fin dal 8 ottobre 2004 e che aveva identificato  lo stress da lavoro, a livello europeo, nazionale ed internazionale, come elemento di preoccupazione sia per gli imprenditori che per i lavoratori, avendo individuato la necessità di una specifica azione congiunta su questo tema.

Nell’accordo si sancisce il principio che «il compito di stabilire le misure spetta al datore di lavoro, ma la loro adozione deve vedere la partecipazione e la collaborazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti». E’ importante questo segnale che ridà vigore e significato alla contrattazione collettiva europea e, a livello nazionale, allo stesso strumento dell’Accordo interconfederale, sempre più raro nel panorama recente delle relazioni sindacali.

Inoltre è interessante osservare come nel testo dell’accordo entrino anche elementi psicologici. Ad esempio, con l’affermazione che l’esposizione a tensione può essere positiva, ma solo se di breve durata e che «individui diversi possono reagire differentemente a situazioni simili e lo stesso individuo può reagire diversamente di fronte a situazioni simili in momenti diversi della propria vita». Ancora, si sottolinea che lo stress non è malattia, ma può «ridurre l’efficienza sul lavoro e può determinare un cattivo stato di salute» .  Il testo esclude dal suo campo di applicazioni la violenza, le molestie e lo stress post-traumatico. Anche se la linea di demarcazione non può essere, ovviamente, netta, soprattutto nei confronti delle molestie e, ancora di più, del mobbing, non espressamente richiamato. Lo stress, infatti, può essere conseguenza del mobbing e, insieme, elemento che lo scatena.

Che l’approccio sia il più inclusivo possibile lo dimostra il richiamo allo «stress che ha origine fuori dall’ambito di lavoro» e che «può condurre a cambiamenti nel comportamento e ad una ridotta efficienza sul lavoro», così come il richiamo alle cause, che possono essere: «il contenuto del lavoro, l’eventuale inadeguatezza nella gestione dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di lavoro, carenze nella comunicazione, ecc.», nonché ai segnali, tra cui: «un alto tasso di assenteismo o una elevata rotazione del personale, frequenti conflitti interpersonali o lamentele da parte dei lavoratori». L’accordo indica anche alcune misure atte a prevenire lo stress che possono essere collettive, individuali o miste, specifiche o integrate,preventive o successive. Molte delle quali relative all’informazione,alla consultazione, alla formazione e alla comunicazione, ma che si spingono alla «gestione dell’organizzazione e dei processi di lavoro,condizioni lavorative e ambiente di lavoro».

Da quanto  conclamato anche a livello europeo, si può affermare che i disturbi psichici sono spesso di origine professionale in quanto  causati o concausati in modo prevalente da specifiche e particolari condizioni dell’attività lavorativa. Tali condizioni come un virus attecchiscono e si sviluppano quando  ci si riempie la bocca con parole come reengeering, change management senza  prestare la dovuta attenzione alle persone.
Spesso le organizzazioni ignorano che per un sempre maggior numero di persone il lavoro non è solo fatica; ma è anche il veicolo attraverso il quale si riflettono e si strutturano le relazioni umane, private e pubbliche. Nelle organizzazioni si è  spesso  costretti a subire e vivere  dei veri “paradossi”. Da un lato un aumento dei sistemi gestionali organizzati per processo (controllo di gestione, qualità, responsabilità sociale, auditing)  o per progetto, e dall’altro ad uno “svilimento”  e “depauperamento” delle competenze organizzative e del rilevante ruolo della  Funzione Organizzazione, ad un irrigidimento della Funzione Risorse Umane su sistemi standardizzati ed omologati indistintamente per tutto il personale, allo scarso coinvolgimento della Funzione Auditing nelle attività di feedback sul clima aziendale, sulla cultura organizzativa, sulla condivisione dei valori, sull’attuazione di una gestione socialmente responsabile; ad una Corporate Social Responsability poco focalizzata sui bisogni dello stakeholder “dipendente”;ad una funzione Comunicazione con finalità più di marketing che di leva motivazionale interna. 
In pratica, nonostante da anni si parli di coinvolgimento del personale a tutti i livelli della gerarchia, le aziende tendono ancora a conservare un’impostazione del lavoro fortemente gerarchica, che scinde i pensatori che pianificano, organizzano, decidono, dagli esecutori che si limitano ad obbedire, ma sono poco stimolati al senso d’iniziativa. Questa tradizionale struttura, di stile verticista, è una delle cause più comuni di improduttività aziendale perché:
limita l’utilizzo del potenziale umano a disposizione
impedisce all’azienda di affrontare dinamicamente il cambiamento, in quanto solo i pensatori sono responsabili di promuoverlo, mentre gli esecutori, non avendo un ruolo attivo lo vivranno più come una minaccia alla propria sicurezza che come un’opportunità di miglioramento aziendale e di crescita personale
è spesso causa di frustrazione nel dipendente che vorrebbe essere un attore della vita aziendale ma viene declassato a comparsa.
In queste condizioni l’azienda, cosiddetta verticistica,  genera al suo interno  insoddisfazione e staticità poiché impedisce sia la necessaria capacità di adattamento  alle mutevoli situazioni di mercato sia la valorizzazione di tutto il capitale umano che in essa opera.
Di fatto la competitività spostandosi dal semplice piano dei prodotti/servizi a quello della gestione delle informazioni richiede una progressiva modifica degli assetti organizzativi  e dei sistemi gestionali a favore di modelli più flessibili ed idonei a rispondere alle sollecitazioni del mercato. Questa considerazione impone alle imprese l’attivazione di un processo continuo di verifica dell’adeguatezza dell’assetto organizzativo e dei processi,  in modo integrato, con le “componenti soft” dell’organizzazione stessa,  e sinergico tra le varie funzioni di Governance. Si sta infatti sempre più affermando la convinzione  che l’analisi culturale ha un ruolo strategico nei processi di cambiamento organizzativo, nelle integrazioni, nelle fusioni, nel guidare e controllare i comportamenti, nella gestione delle risorse umane, perché consente di comprendere il patrimonio valoriale  di un’azienda e di dare valore anche all’intangibile.
Per affrontare le nuove sfide che l’attuale  contesto socio economico pone alle imprese è pertanto necessario, non solo inserire la gestione strategica delle risorse umane nella più ampia strategia dell’organizzazione, ma nel contempo  monitorare i  fattori che determinano l’incremento dei  costi da disagio lavorativo  e impegnarsi per lo sviluppo di una nuova impresa la cui identità è caratterizzata dalla non separabilità tra gli obiettivi gestionali e il rispetto della dignità e della motivazione del lavoratore.

In definitiva il conseguimento del benessere personale e dell’interesse dell’impresa dovranno viaggiare su un unico binario e formare un tutto inscindibile, non rappresentando più una scelta facoltativa ma un  passaggio obbligato  se si vuole, in questa nuova realtà economica, la sopravvivenza, la prosperità, l’innovazione, l’eccellenza, il primato.
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