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Il Diritto Internazionale Umanitario: il caso Guantánamo

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di Pier Vittorio Romano
Durante il corso del conflitto armato prima in Afghanistan, centinaia di persone, ritenute direttamente o indirettamente coinvolte nella rete internazionale del terrorismo, sono state fatte prigioniere dalle forze armate statunitensi e trattenute nelle carceri militari sui territori di conflitto e successivamente trasferite nella base navale di Guantánamo, a Cuba (territorio degli Stati Uniti dal 1903).
Nel rispetto dei principi generali della III Convenzione di Ginevra dal 1949 ai delegati del Comitato della Croce Rossa Internazionale è stata riconosciuta la possibilità di visitare privatamente ciascun detenuto per assicurarsi delle sue condizioni di trattamento.
In questo contesto si inserisce l’opera dell’ ICRC (International Committe of Red Cross), che ha visitato i detenuti di Guantanamo a partire da gennaio 2002. Ad agosto 2010, l’ICRC aveva condotto in totale 76 visite e controlli nei vari posti di detenzione.
Nella fattispecie, la Croce Rossa, pur non avendo obbligo di denuncia, ha segnalato abusi a Guantanamo, riferendo un uso intenzionale da parte dei militari americani della coercizione fisica e psicologica, «equivalente a tortura», sui detenuti. Nel rapporto, che si riferisce a una visita effettuata nel giugno 2004 - consegnato ai legali della Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento di Stato e ai comandi del centro di detenzioni di Guantanamo - gli inviati dell’ICRC hanno verificato un sistema volto a fiaccare la volontà dei prigionieri di Guantanamo e di renderli completamente dipendenti dai loro «inquisitori», tramite azioni umilianti, isolamento, temperature estreme, posizioni fisiche obbligate.
L’applicazione delle convenzioni di Ginevra dipende in primo luogo dall’esistenza di un conflitto armato; qui, in realtà, non è in gioco l’applicazione dell’intero diritto umanitario, ma l’esclusione soggettiva da questa, attraverso una non-ricomprensione degli individui catturati nella categoria di prigionieri di guerra, con la conseguente esclusione pratica da una serie di garanzie. L’articolo 4 della III Convenzione, in cui è inclusa la nozione di prigionieri di guerra, è, quindi, al centro della controversia interpretativa sullo status dei combattenti talebani e di Al Qaeda.
L’art. 4, infatti, si compone di due sezioni e di molte sottosezioni concernenti differenti categorie di persone abilitate a rivestire lo status di prigionieri di guerra. Il principio generale da seguire è quello per cui ogni membro di una forza armata di una parte che partecipa ad un conflitto è un combattente e, se catturato dalla parte avversaria, diviene un prigioniero di guerra. La prima categoria fornita è quindi quella di membri di una forza armata ufficiale o di una milizia o corpo di tipo volontario. L’obbligo, però, è quello di distinguersi dalla popolazione civile.
Rimanendo nell’ambito della prima categoria di prigionieri di guerra, più che altro la questione diventa se i combattenti talebani e membri di Al Qaeda si distinguano dai civili afgani (o risultano come parte di una vera e propria milizia o sono irriconoscibili rispetto alla popolazione ordinaria). Il fatto però che questi gruppi siano dotati di una struttura organizzativa e di comando favorisce la ricomprensione all’interno di questa categoria di prigioniero di guerra.
La sezione A, primo comma, dell’articolo 4 prevede sia configurabile lo status di prigionieri di guerra (o legittimi combattenti catturati) anche per i “membri di forze armate di una parte del conflitto”, nonché per i “membri di milizie o corpi volontari che facciano parte di queste forze armate”. Ci sono però anche altre categorie che hanno il titolo per essere definite prigionieri di guerra, se catturate. Fra queste, soltanto la sezione A, secondo comma, impone i quattro requisiti cui si riferiva l’Esecutivo.
La Convenzione di Ginevra include, infatti, i membri di forze irregolari che si trovano sotto un comando responsabile, abbiano un segno distintivo, portino apertamente le armi e si uniformino alle leggi di guerra. Ed è proprio a queste caratteristiche che avrebbero dovuto rispondere, secondo l’Esecutivo i membri delle forze talebane e di Al Qaeda.
A ben vedere, si tratterebbe di un’erronea interpretazione delle previsioni della Convenzione. Secondo l’articolo 4A comma 1, i talebani, come membri delle precedenti forze armate afgane, sono da considerarsi presuntivamente, se catturati, come prigionieri di guerra.
Tuttavia, gli Stati Uniti hanno costantemente definito i detenuti di Guantánamo: come“combattenti illegittimi”, rifiutandosi di riconoscere loro lo status di “prigionieri di guerra” con i conseguenti diritti e tutele previsti dalla III Convenzione di Ginevra del 1949. Infatti, nel febbraio 2002, a seguito del primo conflitto instaurato in Afghanistan dopo l’attentato alle Torri Gemelle, in una dichiarazione pubblica dell’ufficio stampa della Casa Bianca, venne deciso che: la III Convenzione di Ginevra del 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra, della quale fanno parte sia gli Stati Uniti sia l’Afghanistan, si applica al conflitto in corso tra i talebani e gli Stati Uniti; la Convenzione, però, non si applica al conflitto armato in Afghanistan, o in altri luoghi, tra le milizie di Al Qaeda e gli Stati Uniti; né il personale combattente catturato talebano o di Al Qaeda ha diritto ad essere considerato prigioniero di guerra ai fini di tale definizione; nonostante ciò, tutti i catturati devono essere trattati umanamente.

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