Più che una forza di polizia, l’ALP è una forza di difesa comunitaria contro i talebani il cui impiego dovrebbe permettere alle forze governative di concentrarsi sulla parte offensiva piuttosto che su quella difensiva. Ma se sulla carta la strategia sembra buona, nella realtà si scontra con i delicati equilibri tribali e politici, oltre che con la cultura locale e soprattutto con la storia dell’Afghanistan. Le milizie irregolari degli Arbakai sono ben note alla popolazione che da queste venivano taglieggiate e minacciate. Uccisioni, stupri, rapine ed estorsioni hanno creato la fama negativa di queste gang di ex mujaheddin, di warlord o di criminali comuni. Il tentativo di inserire alcuni leader di questi gruppi all’interno dell’ALP, insieme ad ex talebani che si vuole reintegrare, ha però avuto effetti collaterali indesiderati, ma prevedibili. Secondo i rapporti di diverse organizzazioni non governative, come Human Rights Watch, Oxfam e le stesse Nazioni Unite, i membri dell’ALP perpetrano abusi, commettono crimini di varia natura, impongono illegalmente tasse cosiddette “religiose” e contribuiscono ad aumentare l’insicurezza e la paura nelle stesse comunità che invece dovrebbero proteggere. Dunque l’esatto contrario di quello per cui vengono addestrati. Il dettagliato rapporto di Human Rights Watch dello scorso settembre, in particolare, ha rivelato la gravità e l’entità degli abusi. Significativamente, la leadership militare americana per bocca del Generale James Marrs è intervenuta precipitosamente minimizzando i risultati del rapporto, dopo che i media ne avevano dato ampio risalto, e concludendo che al di là di sporadici casi da correggere l’ALP si conferma “efficace”. Ma le centinaia di testimonianze rivelano non solo abusi e violazioni di diritti umani da parte delle milizie locali, ma anche la loro impunità derivante dalla protezione delle Forze Speciali americane che scoraggiano la polizia afghana dall’intervenire. Inoltre, secondo il rapporto, in molte zone le comunità hanno ricevuto pressioni dal governo di Kabul per accettare l’ALP, nella quale erano stati reclutati membri di gang criminali ed (ex) talebani che in passato avevano commesso razzie e omicidi in quelle stesse comunità. Chi viene reclutato nell’ALP riceve tre settimane appena di addestramento, ma soprattutto riceve un salario, delle armi e, forte dell’investitura ufficiale, può continuare a commettere crimini senza temere l’intervento di altre forze di sicurezza.Il distretto di Shindand, le province di Baghlan, Kunduz, Wardak, Paktika e Uruzgan hanno avuto problemi con l’ALP sin dal 2010. I problemi erano dunque già noti alle forze internazionali, ma furono volutamente ignorati per ragioni politiche. L’assenza di controlli a livello locale e governativo su quanti entrano a far parte del programma di polizia locale e sulla responsabilità dei suoi membri contribuiscono ad allontanare la popolazione dal governo e costituiscono un pericoloso incentivo a rivolgersi nuovamente ai talebani. Le pressioni politiche per un rapido ritiro delle forze internazionali entro il 2014 non tengono conto del lavoro incompiuto che vede un Paese ancora non pacificato, frammentato, in mano ai clan e ai potentati locali e dove le istituzioni non sono riuscite a instaurare un effettivo sistema giudiziario e uno stato di diritto che protegga il cittadino afghano dagli abusi e dalla dilagante corruzione. La necessità di fare presto si scontra dunque con ciò che sarebbe più utile al Paese. L’imposizione di gruppi armati composti da criminali ed ex combattenti già invisi alla comunità e senza alcun controllo può dunque diventare solo un ulteriore elemento di insicurezza e di sfiducia. Ritirate le forze della coalizione, gli afghani torneranno a morire e a poco saranno serviti i tanto sbandierati programmi di addestramento dell’ANSF da parte di ISAF.
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