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Il rapporto 2012 della Corte dei conti sul coordinamento della finanza pubblica

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del cons. Paolo Luigi Rebecchi
Il 5 giugno 2012 , la Corte dei conti ha presentato alla Camera dei deputati il proprio rapporto , nel quale sono stati descritti gli andamenti della finanza pubblica nel 2011. I contenuti del rapporto sono stati presentati dal presidente della Corte Luigi Giampaolino e dal presidente di sezione Luigi Mazzillo, presidente di coordinamento delle Sezioni riunite in sede di controllo . E’ interessante constatare che gli interventi in tema di “spending review” e di ulteriori misure di riduzione della spesa adottate con il decreto legge 7 maggio 2012 n. 52  “Disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa pubblica” (di cui al numero di maggio di Argilnews) si sono inseriti in un percorso in atto da tempo , e di cui il rapporto che si segnala traccia un quadro complessivo, di riduzione della spesa pubblica nel nostro Paese al fine di contrastare gli effetti della crisi economica e dei suoi effetti sulla tenuta del debito pubblico italiano e della moneta unica.  L’analisi ha evidenziato la effettiva riduzione della spesa nel 2011 e anche nel 2010 , per effetto della quale , l’indebitamento, nel 2011,  è sceso al 3,9 per cento del Pil. La riduzione ha riguardato lo Stato e le amministrazioni locali. Al netto degli interessi e dei trasferimenti alle amministrazioni locali, nel biennio 2010-2011 le spese nominali dello Stato sono diminuite di quasi il 6 per cento, a fronte di un aumento del loro tasso medio annuo di circa il 6 per cento durante l’intero arco degli anni 2000. Nel solo 2011, la spesa primaria è risultata inferiore di quasi 4 miliardi al livello previsto in sede di DEF nell’aprile 2010. Sempre nel 2011, le retribuzioni corrisposte dalle amministrazioni pubbliche sono state di 13 miliardi al di sotto delle previsioni avanzate all’inizio della legislatura. Nel triennio 2009-2011, la stretta impressa agli acquisti di beni e servizi dei ministeri si è tradotta in una riduzione complessiva degli impegni di bilancio dello Stato di oltre l’8 per cento, nonostante che, negli ultimi quattro anni, siano state regolate posizioni debitorie pregresse per un ammontare di oltre 3,5 miliardi. Se quindi nell’insieme sono state efficaci le numerose misure adottate,  il rapporto evidenzia come la composizione sia “… del tutto sbilanciata, posto che ad una riduzione di meno del 3 per cento delle spese primarie correnti fa riscontro la caduta del 26 per cento di quelle in conto capitale, con un taglio dei contributi alle imprese nel biennio 2010-11 nettamente superiore al 50 per cento…”.
La riduzione ha riguardato anche gli enti territoriali , che hanno registrato  un consuntivo  2011 migliore delle attese :  il disavanzo si è arrestato allo 0,3 per cento del Pil rispetto allo 0,5 per cento previsto. Per il secondo anno consecutivo si sono ridotte le uscite complessive. Un andamento, questo, dovuto ancora alla caduta della spesa in conto capitale, ma anche ad una flessione dell’1,2 per cento della spesa corrente. La prima, dalla metà degli anni novanta. Un risultato, peraltro, prevalentemente indotto dal progressivo ridimensionamento delle risorse disponibili per gli enti locali.
Nel settore della spesa sanitaria le uscite complessive , pari a 112 miliardi sono state inferiori di oltre 2,9 miliardi al dato previsto. Per la prima volta, la spesa sanitaria ha ridotto, seppur lievemente, la sua incidenza in termini di Pil, scendendo dal 7,3 per cento del 2010 al 7,1. Osserva il rapporto che “…nonostante i progressi  nei risultati economici, il settore sanitario continua, tuttavia, a presentare fenomeni di inappropriatezza organizzativa e gestionale che opportunamente ne fanno un ricorrente oggetto di attenzione ai fini dei programmi di tagli di spesa. Senza, però, dover per questo ricominciare daccapo e rinunciare alla valorizzazione ed allo sviluppo dei percorsi di rientro che sono stati positivamente sperimentati in questi anni, seppur non senza contraddizioni e criticità, evidenziate dai frequenti episodi di corruzione a danno della collettività che continuano ad essere denunciati nel settore. Importanti miglioramenti nei risultati economici e recuperi di governance sono stati resi possibili dalla riorganizzazione degli assetti organizzativi regionali, a loro volta indotti dai progressi compiuti nella definizione di standard nei budget e da una sempre più accurata informazione sulla gestione e sulle prestazioni rese dalle strutture di assistenza….”.
Viene anche osservato che “..nel guardare ai possibili sviluppi della politica di bilancio, non si può ignorare che il risultato ottenuto in termini di spesa si è accompagnato, specie negli enti locali, ad una crescente fragilità ed a pratiche tendenti ad attenuare gli effetti immediati delle misure di contenimento, con il rischio in alcuni casi di spostare in avanti il necessario riequilibrio strutturale. L’esame e la verifica dei bilanci degli enti territoriali, condotto dalle Sezioni regionali di controllo, hanno confermato quanto emerso negli anni scorsi in merito all’incremento delle situazioni di “sofferenza finanziaria” ed alla presenza di fenomeni contabili che possono celare situazioni di squilibrio finanziario: alcuni Enti hanno dichiarato il dissesto ed altri hanno avviato percorsi di risanamento monitorati anche dalla locale Sezione della Corte. Nell’attività di controllo sono emerse criticità nell’osservanza della disciplina del Patto di stabilità interno. Da segnalare, fra l’altro, l’utilizzo di meccanismi contrattuali elusivi del rispetto dei limiti al ricorso al debito, ma anche: l’esistenza di significative situazioni di squilibrio di bilancio evidenziate da risultati negativi della gestione di competenza e di quella corrente; il crescente ricorso ad anticipazioni di tesoreria, in alcuni casi senza soluzione di continuità tra un esercizio e l’altro; il mancato contenimento di alcune particolari tipologie di spesa…Tali criticità non sono estranee anche alla forte diffusione dell’utilizzo, da parte degli enti locali, di organismi societari per la gestione di servizi e per l’esercizio di attività pubbliche…”.
Continua infatti ad essere molto rilevante il fenomeno delle società partecipate dagli enti locali . Secondo “…la banca dati della Corte (che non comprende tutte le regioni a statuto speciale), sono oltre 5.000 gli organismi partecipati (aziende, consorzi, fondazioni, istituzioni, società) nei 7.200 enti locali censiti. Si tratta, in gran parte, di organismi costituiti in forme societarie, di cui quasi la metà operante nel settore delle local utilities. Le società hanno in media circa 80 addetti; gli organismi non societari 30. Oltre un terzo delle società rilevate ha chiuso in perdita uno degli esercizi compresi nel triennio 2008/2010. Nella grande maggioranza dei casi, le società hanno avuto l’affidamento diretto (per un valore della produzione di quasi 25 miliardi), indice che la gestione è solo formalmente attribuita ad un soggetto esterno, considerato il rapporto organico che esiste tra ente affidante e società in house. A tali soggetti è riferibile un indebitamento consistente (quasi 34 miliardi), in crescita nell’ultimo triennio di oltre l’11 per cento. Una connotazione non sempre necessariamente negativa, visto che nei servizi capital intensive (acqua, rifiuti, energia, gas) l’infrastruttura può rappresentare gran parte dei costi del servizio, ma fa assumere maggior rilievo alla necessità di mantenere la società in equilibrio economicofinanziario, in modo da assicurarne la sostenibilità. Non si deve, infine, trascurare che la mancata previsione di vincoli posti al debito delle società partecipate può aver favorito forme di abuso dello strumento societario per ricorrere a finanziamenti non consentiti alle amministrazioni di riferimento. Resta in ogni caso l’esigenza – peraltro riconosciuta dal quadro normativo vigente - di un progressivo e consistente ritrarsi del fenomeno partecipativo, soprattutto dai settori che non rappresentano servizi di interesse generale, dove maggiormente si concentrano performance negative. Oltre il 60 per cento delle società sono partecipate da enti sotto i 30.000 abitanti: ciò può bastare a comprendere come la revisione del perimetro dell’intervento pubblico sia un’operazione necessaria, non solo ai fini di riduzione della spesa, ma anche a quelli di efficientamento dell’azione pubblica.
Infine si osserva come il 2011 segni “… una discontinuità nella gestione delle politiche di bilancio della XVI legislatura. Al suo inizio, nel giugno del 2008, la correzione dei conti pubblici veniva proiettata su un orizzonte pluriennale, assumendo che il pareggio di bilancio potesse essere conseguito già nel 2011. A conclusione di questo percorso, sul 2011 si sono concentrate riduzioni discrezionali di spesa per quasi 35 miliardi, mentre le maggiori entrate programmate sono rimaste nell’ordine degli 11 miliardi. La concentrazione degli interventi dal lato della spesa ha comportato la necessità del ricorso a stringenti strumenti di coordinamento, dal momento che, al netto degli interessi e delle prestazioni previdenziali, alle Amministrazioni locali faceva capo poco meno del 60 per cento delle uscite complessive del bilancio pubblico. Riconoscere la sostanziale efficacia dei meccanismi adottati per il controllo sulla spesa ad ogni livello di governo non può, tuttavia, far ignorare che il profilo di sicurezza immaginato per i conti pubblici è venuto meno a seguito della crisi finanziaria globale, che ha precipitato l’intera economia occidentale nella recessione più profonda sperimentata dopo gli anni Trenta. I fatti dispiegatisi nel corso del 2011 hanno ulteriormente spinto il ribaltamento in peggio delle prospettive. Nel corso dell’estate, anche a seguito dell’intenzione espressa dalle Autorità europee di estendere ed inasprire le procedure di sorveglianza alle dinamiche del debito, esplodeva sui mercati finanziari una crisi di fiducia sul debito sovrano di alcuni paesi europei, fra cui anche l’Italia. In queste condizioni, la logica emergenziale ha ripreso inevitabilmente il sopravvento, imprimendo una direzione diversa alla manovra di finanza pubblica: gli interventi correttivi decisi nell’estate presentano la caratteristica evidente di concentrarsi sulle entrate, a cui è legato il reperimento di oltre i due terzi delle maggiori risorse di bilancio. A dicembre, il nuovo governo rafforzava le dimensioni dell’intervento correttivo, aggiungendo misure integrative di correzione e confermando il ricorso prevalente alla leva tributaria per l’intero orizzonte programmatico. La scelta di accentuare la manovra dal lato delle entrate risponde, evidentemente, all’esigenza di assicurare il pareggio di bilancio già nel 2013, in un contesto reso più difficile dalla crisi finanziaria e dai rischi circa la sostenibilità del debito dei paesi europei più esposti. Nei fatti, l’aumento discrezionale della pressione fiscale contrasta la caduta del gettito provocata dalla perdita permanente di prodotto. La controindicazione di questa scelta, già richiamata dalla Corte in altre occasioni, sta negli impulsi recessivi - del resto riconosciuti e quantificati nello stesso DEF 2012- 2015 – che una maggiore imposizione trasmette all’economia reale, dunque nel rischio che un ulteriore rallentamento dell’economia allontani il conseguimento degli stessi obiettivi di gettito. Il pericolo di un avvitamento deve essere attentamente monitorato, disinnescando il circolo vizioso in cui si potrebbe rimanere intrappolati. Occorre incidere sui fattori che bloccano la crescita, per recuperare, ma solo grazie a maggiori incrementi del Pil, il gettito mancante. L’originale intonazione redistributiva, recepita nel disegno di legge delega per la riforma fiscale ed assistenziale del luglio 2011, ha potuto trovare solo una parziale attuazione nel Dl n. 201/2011 di fine anno, nella misura in cui l’aumento impositivo che ha investito consumi e patrimoni si è tradotto in una riduzione molto limitata del prelievo sui redditi da lavoro e d’impresa. Il 2011 ci ha così consegnato la realtà di un sistema impositivo ancora distante dal modello europeo: segnato dalla coesistenza di un’elevata pressione fiscale e di un elevatissimo tasso di evasione. Si è riusciti a ridurre (imposizione sui consumi), e, sotto altro profilo, ad invertire (imposizione sul patrimonio), il differenziale negativo evidenziato dal nostro paese, senza poter tuttavia, intaccare, in misura decisiva, il differenziale in eccesso nella pressione fiscale complessiva, in generale, e nella tassazione dei redditi da lavoro e di impresa, in particolare. Completare il percorso di adeguamento al benchmark europeo è essenziale per aprire prospettive di crescita, ma non appare né facile né semplice. Tanto per le dimensioni dello sforzo da richiedere alla finanza pubblica – 50 miliardi secondo i calcoli della Corte - quanto per i limitati spazi di copertura disponibili, nella considerazione che il settore impositivo naturalmente deputato (il prelievo sui consumi) risulta già prenotato da un aumento a tempo delle aliquote IVA. Anch’esso, peraltro, potenzialmente gravido di controindicazioni sul piano economico e sociale. Sostanzialmente esauriti i margini finora offerti dalle entrate volontarie, a cominciare da quelle per giochi, e dall’efficientamento dell’attività di riscossione, si rafforzano, pertanto, le ragioni per puntare sulla soluzione dell’ampliamento della base imponibile, assegnando alla lotta all’evasione ed all’elusione ed al ridimensionamento dell’erosione il compito di assicurare margini consistenti per riequilibrare il sistema di prelievo almeno in parte conciliando rigore, equità e crescita. Resta naturalmente fermo che l’opzione di fondo da perseguire non può che essere quella di una consistente riduzione della spesa corrente – sia primaria che per interessi sul debito. Riduzione della spesa primaria da ottenersi attraverso la reingegnerizzazione dei processi amministrativi, il ridisegno organizzativo delle PP.AA. e la redelimitazione dei confini del pubblico, ma anche innovando nelle modalità di erogazione dei servizi amministrativi, prevedendone - quando economicamente giustificato e tecnicamente fattibile - una gestione autonoma ed autofinanziata. Parallelamente, ed analogamente a quanto è già stato fatto per le imposte, andrebbe anticipata l’attuazione del federalismo fiscale anche per quanto riguarda l’adozione dei costi standard…”-
Il rapporto si conclude con alcune ipotesi sulle evoluzione della finanza pubblica in rapporto alla auspicata ripresa economica.
Viene cosi osservato che “…le implicazioni delle nuove regole europee in materia di riduzione del rapporto debito/PIL e di pareggio di bilancio dimostrano che si può disegnare un percorso ad un tempo di rigore e di ripresa della crescita: se nel 2015 si conseguirà, come previsto dal DEF, un rapporto debito/PIL di 114,4, a partire dal 2016 basterebbe una crescita nominale dello stesso PIL di appena il 2 per cento perché il mantenimento del pareggio di bilancio possa di per se assicurare il conseguimento dell’obiettivo di riduzione del debito secondo il ritmo prescritto dalle nuove regole. A patto, tuttavia, di generare e mantenere per un ventennio, dal 2016 al 2036, un saldo primario in lenta diminuzione dal 5,5 a poco più del 3 per cento, nel caso di un’ipotesi di crescita prudenziale, ma comunque non minimale. L’obiettivo è arduo, benché non impossibile da raggiungere, se si tiene conto che anche nell’ipotesi più ottimistica fatta propria dalla Corte per questo esercizio il tasso di crescita supererebbe di poco l’1 per cento medio annuo in termini reali. Tutto diventerebbe più facile con il concretizzarsi di una crescita più elevata. Alla quale vanno, quindi, prioritariamente finalizzati – a tutti i livelli – sforzi, energie, risorse. E’ un percorso che può essere facilitato riprendendo, con convinzione e continuità, il processo volto a realizzare un abbattimento significativo del debito, attraverso la dismissione di quote importanti del patrimonio oggi in mano pubblica. Con soluzioni operative che – anche per evitare il rischio di svendite – partano dall’identificare dimensioni, condizioni e responsabilità organizzative e gestionali…”.

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