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Il pericolo islamista della primavera egiziana

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di Cristiana Era
A due mesi dall’assunzione del suo incarico, il Presidente egiziano Mohamed Morsi è ancora ben lontano dal mettere in piedi il progetto di riforme che avrebbe dovuto portare ad un Rinascimento del paese. E infatti, insieme alle agitazioni interne alla Tunisia e alla Libia – quest’ultima mai pacificata dalla fine del conflitto – non sembra che la primavera araba stia contribuendo alla stabilità e alla democratizzazione della regione nordafricana.
Come alcuni osservatori avevano rilevato all’indomani delle agitazioni di piazza, le sommosse popolari che hanno portato alla caduta dei regimi dittatoriali in alcuni paesi del vicino oriente non hanno automaticamente determinato la nascita di una corrente riformista liberale araba e/o di una apertura dell’area nella direzione voluta dal mondo occidentale, che ha salutato con entusiasmo prematuro i movimenti di massa.
Certamente, un programma di riforme è la piattaforma politica di chi, tramite libere elezioni, assume la guida del paese. Ma l’equivoco di sempre è quello di sbandierare un processo elettorale democratico e una codificazione costituzionale come elementi sufficienti per l’affermarsi di un regime democratico. La storia insegna che regimi autoritari e totalitari hanno preso il potere democraticamente a seguito di una rivoluzione e che le Costituzioni possono restare semplici pezzi di carta con l’enunciazione di principi e libertà individuali in realtà mai rispettati e tutelati.
E in Egitto è rimasto, appunto, lettera morta il programma elettorale di Morsi che prevedeva l’assegnazione alle donne e a membri della minoranza copta di incarichi di rilievo nell’amministrazione  e una rivalutazione dei salari, oltre alle riforme nel campo della sicurezza, della sanità e una nuova politica sui carburanti e sulla circolazione. Nel nuovo governo sono solo due le donne in carica, di cui una di religione copta. E la nomina recente di due assistenti per gli affari politici e per la transizione democratica, di cui uno scrittore copto ed una professoressa dell’Università del Cairo, non rappresentano un passo avanti nella direzione delle riforme. All’attuale mancanza di impegno nell’attuazione del programma non è però corrisposto un abbassamento della popolarità del Presidente, a fronte di poche e isolate voci critiche. Morsi, infatti, con due iniziative è riuscito a guadagnare il favore popolare e della classe politica civile: la destituzione del potente Maresciallo Hussein Tantawi, capo delle Forze Armate egiziane e Ministro della Difesa, e del Generale Sami Anan, Capo di Stato Maggiore della Difesa il 12 agosto; e l’intervento militare in Sinai il 7 agosto con l’operazione Aquila a seguito dell’attentato di terroristi islamici contro una postazione di polizia. Con queste azioni Morsi ha inviato più segnali: in primo luogo ai vertici militari - che avevano limitato il potere presidenziale ancor prima del suo insediamento - e alla società, indicando l’intenzione di mantenere il controllo nelle mani delle istituzioni civili; in secondo luogo, per quanto riguarda il Sinai, alla comunità internazionale, manifestando l’impegno a combattere il terrorismo. E infine un chiaro segnale agli israeliani, a loro volta intervenuti in Sinai con il pretesto che l’Egitto non aveva il controllo dell’area.
La rinnovata popolarità di Morsi rischia di distogliere l’attenzione dal fatto che egli ha al contempo cancellato la Costituzione ad interim che lasciava ampi poteri in mano ai militari e avocato a sé poteri esecutivi e parlamentari, insieme alla facoltà di nominare una nuova Assemblea costituente nel caso l’attuale non sia in grado di mettersi d’accordo su una bozza di Costituzione. La concentrazione di poteri va inoltre di pari passo con una progressiva “islamizzazione” delle cariche governative. L’appartenenza di Morsi ai Fratelli Musulmani ha dato a questi ultimi l’accesso diretto al Presidente per poter presentare progetti o fare proposte. Tra le ultime, una lista di 50 nomi per la nomina dei governatori delle province. Il 4 settembre Morsi ha nominato 11 governatori, tra cui spiccano nomi di rilievo del movimento, ma si prevede che la maggioranza dei governatorati andrà ai Fratelli Musulmani e al gruppo radicale salafita di Al-Nour. Da questi segnali sembrerebbe che l’Egitto stia muovendosi verso una progressiva islamizzazione della società. Ha suscitato notevoli polemiche l’apparizione di una annunciatrice del telegiornale velata con hijab. Si tratta del primo caso dal 1952, quando un codice impose l’abbigliamento “laico” ad annunciatori e presentatori della televisione di Stato. E dagli ambienti islamici stanno arrivando richieste sempre più numerose per limitare i diritti delle donne.
Il movimento di Piazza Tahrir ha permesso di far arrivare al potere secondo modalità democratiche un movimento islamico che democratico non è. I Fratelli Musulmani non hanno mai nascosto di voler perseguire l’instaurazione di uno Stato islamico in Egitto, con la Shari’a come fonte primaria di legge. Né - è il caso di ricordarlo - si è pronunciato diversamente il Presidente Morsi prima di entrare in politica. Già in una intervista del 2010 rilasciata a Eric Trager, uno dei ricercatori del Washington Institute for the Middle East, sottolineò come l’attività del movimento era indirizzata ad una progressiva islamizzazione dal basso verso l’alto attraverso le attività sociali che aveva messo in piedi. 
La capacità organizzativa dei Fratelli Musulmani, contrapposta alla disorganizzazione e mancanza di coesione tra i giovani rivoluzionari laici di Piazza Tahrir, ha permesso ai partiti islamici di ottenere il 75% dei seggi in Parlamento. Una volta alla Presidenza, Morsi ha ingaggiato un braccio di ferro con i militari. Mentre in un primo momento è sembrato che i militari riuscissero ad esautorare il neo Presidente, in breve tempo le parti si sono invertite. Vi è il sospetto che una volta arrivati al potere, i leader dei Fratelli Musulmani attuino una politica graduale di instaurazione dello Stato islamico, stavolta dall’alto verso il basso, tramite Morsi che ha recentemente rafforzato la propria posizione. Va inoltre ricordato che le dichiarazioni del movimento relative al processo democratico per superare la crisi egiziana hanno sempre avuto un contenuto ambiguo. 
Dopo le ultime mosse, l’unico potenziale oppositore di Morsi rimane l’Alta Corte Costituzionale. Ma da più parti ci si aspetta qualche altro colpo di mano per emarginare tutti gli esponenti scomodi che ancora si trovano in posizioni chiave, come il Procuratore Generale Abdel Meguid Mahmoud. 
Un ultimo accenno che sembra confermare i timori di un possibile ritorno ad un regime non democratico riguarda la politica estera egiziana. Alcune dichiarazioni del Presidente non possono non destare preoccupazione, in particolare per l’alleato occidentale principale dell’Egitto, cioè gli Stati Uniti, i quali in passato sono stati molto generosi nel finanziare la giunta militare e forse altrettanto frettolosi nel salutare il cambiamento come l’avvio di una transizione democratica. Dal momento della nomina di Morsi, i rapporti con Israele sono peggiorati, con un accenno alla volontà di rinegoziare gli Accordi di Camp David. Inoltre, all’interno del nuovo assetto governativo egiziano sono state nominate personalità che hanno manifestato ostilità nei confronti di Israele. Contemporaneamente, Morsi ha dato segno di volersi riavvicinare all’Iran, con il quale i rapporti erano tesi dal 1979, annunciando una possibile visita a Teheran. Significativo a tal proposito è la proposta di creare un quadrumvirato con l’Iran, oltre ad Arabia Saudita e Turchia, per la risoluzione della crisi siriana.
In quest’ottica, le rassicurazioni di Morsi sul rispetto del trattato di pace con Israele confermate al premier italiano Monti durante il loro ultimo incontro, così come le prossime visite in Europa e negli Stati Uniti e l’apertura al Fondo Monetario Internazionale, vanno forse interpretate come il tentativo di non perdere i finanziamenti internazionali e la promessa degli Stati Uniti di ridurre il debito estero egiziano di un miliardo di dollari di cui l’economia egiziana ha disperatamente bisogno. Ma la concentrazione del potere realizzata da Morsi in poco più di due mesi, non dissimile da quella già detenuta suo predecessore, mette un punto interrogativo su un futuro sviluppo democratico dell’Egitto.
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