Europa - News and Society

European News Portal

  • Full Screen
  • Wide Screen
  • Narrow Screen
  • incrementa grandezza carattere
  • Default font size
  • Riduci grandezza carattere

Il declino di Al-Qaida in Afghanistan non ferma il terrorismo di matrice islamica

E-mail Stampa PDF

di Cristiana Era
Un recente rapporto del Dipartimento di Stato americano (il Country Report on Terrorism) ha messo in rilievo come il 2011 sia stato un anno cruciale nella lotta al terrorismo. Il documento sottolinea come la morte di bin Laden e di Atiya Abdul Rahman - uccisi in Pakistan rispettivamente in maggio e agosto – e di Anwar al-Awlaki, uno dei leader di al-Qaida nella penisola arabica – ucciso nel settembre 2011 in Yemen – abbia inferto un duro colpo all’organizzazione terroristica, ormai ritenuta in declino.
Ma se è vero che l’operazione grazie alla quale le forze speciali americane hanno stanato ed eliminato il leader di al-Qaida va certamente considerata come un successo, va anche sottolineato che il suo impatto è più di tipo emotivo (e propagandistico, visto che siamo in campagna elettorale) che non effettivo. Sia l’organizzazione che il suo leader storico, infatti, avevano già da tempo esaurito la capacità operativa e organizzativa, trasformandosi semmai in un simbolo per altri gruppi estremisti affiliati che nel frattempo sono nati e si sono diffusi, qualcuno con successo, in Medio Oriente,  Africa e Asia. Diverso sarebbe stato se il blitz fosse avvenuto all’indomani  dell’attacco alle torri gemelle. In breve, al-Qaida e bin Laden sono diventati ormai un marchio internazionale di ispirazione per il fondamentalismo islamico che è composto da movimenti con caratteristiche locali, che all’occasione diventano transfrontalieri per combattere per la causa jihadista e che sono organizzativamente indipendenti. 
Il documento americano rivela come nel 2011 il numero di attacchi terroristici nel mondo sia diminuito rispetto al 2005, soprattutto in Iraq e in Afghanistan, anche se al contempo mette in guardia sulla nascita di nuovi gruppi radicali islamici. E proprio su questi ultimi occorre puntare lo sguardo perché sono ormai padroni dello scenario africano mediorientale e asiatico, cosa che in parte contraddice quanto affermato da Daniel Benjamin - il coordinatore dell’antiterrorismo del Dipartimento di Stato - che prende ad esempio le rivolte della primavera araba come esempio di democrazia e di diminuita influenza di al-Qaeda nel mondo musulmano. 
L’Africa è al momento sotto la lente di molti analisti e osservatori politici, alcuni dei quali mettono in guardia sul rischio che in alcune aree in cui trovano rifugio vari movimenti islamici possa nascere un nuovo Afghanistan. Boko Haram in Nigeria, Al Shabaab in Somalia, l’AQMI (Al Qaida nel Maghreb Islamico) in Algeria, Ansar Dine in Mali: negli ultimi mesi attentati, rapimenti e azioni militari si sono intensificati. In Algeria e in Mauritania l’allerta per i rapimenti di occidentali e diplomatici con relativa richiesta di riscatto per finanziare le proprie attività rimane alta. In Libia l’attentato al Consolato USA di Bengasi che è costato la vita all’Ambasciatore Stevens, presumibilmente ad opera del movimento salafita Ansar al-Shari’a, rivela impietosamente la situazione di instabilità e di insicurezza che smentisce qualunque affermazione sulla evoluzione in forma democratica della rivolta contro il regime di Gheddafi. Il Paese è in mano a gruppi armati, islamisti e non. In Mali al-Qaeda sta cercando di inserirsi nelle rivendicazioni indipendentiste dei Tuareg e la situazione è deteriorata al punto che il 24 settembre il Presidente maliano ha chiesto l’intervento dell’ONU per liberare il nord dalla presenza degli integralisti islamici che ormai lo controllano.
Anche l’espressione  “primavera araba“ rischia di essere più l’immagine di ciò che l’Occidente vorrebbe vedere che non la realtà dei fatti. La Libia, come abbiamo detto, non si è ancora stabilizzata. L’Egitto è dominato dai Fratelli Musulmani che tramite e grazie al loro membro Morsi, attuale Presidente, hanno già disatteso molte promesse sui diritti civili, in particolare delle donne, ed Morsi stesso ha preso diverse iniziative che hanno a poco a poco esautorato gli esponenti della vecchia giunta militare concentrando  al contempo il potere nelle sue mani. E nell’alleanza governativa c’è anche il gruppo radicale salafita di al-Nour. Anche i media hanno subìto qualche contraccolpo. Il timore di una possibile svolta verso uno Stato regolato dalla Shari’a non è infondato. Anche la Tunisia, dove la transizione è stata più lineare e pacifica, comincia a dar segni della presenza di un Islam radicale che tenta in più modi di incanalare il Paese verso un’altra direzione. Nel processo di redazione della Costituzione molte forze hanno spinto per definizioni ambigue che lasciano spazi di penetrazione ad una possibile introduzione della Shari’a, come è il caso della parità tra i sessi, che per fortuna è stato riformulato in modo da eliminare ogni possibile dubbio. Ma resta la presenza di forze che spingono per una svolta verso uno Stato Islamico. La realtà della Siria è sotto gli occhi di tutti: qui la primavera araba non è mai arrivata, ma in compenso c’è una guerra civile, fomentata dai gruppi terroristici, che la comunità internazionale non riesce a fermare, con la vergogna di un’ammissione di fallimento da parte di un’ONU paralizzata dai veti di Russia e Cina.
In Iraq, al-Qaida è ancora presente sotto la sigla di AQI (al-Qaida in Iraq) insieme al gruppo Ansar al-Islam, in Yemen i gruppi terroristici affiliati ad essa (AQAP – al-Qaida nella Penisola Arabica, AQY – al-Qaida in Yemen e Ansar al-Shari’a) hanno ripreso forza dopo la deposizione del Presidente Saleh, mentre in Asia sudorientale opera il gruppo islamico JemaahIslamiya, attiva in Malesia, Singapore, Indonesia, Brunei, Filippine e Thailandia.
Infine, i casi di Pakistan e Afghanistan. Al-Qaida in Afghanistan è stata certamente indebolita. Ma nelle aree tribali a nordovest del Pakistan al confine con l’Afghanistan operano i vari gruppi talebani, in particolare la rete Haqqani responsabile di azioni rilevanti, tra cui si ricorda l’uccisione dell’ex Presidente afghano Rabbani e gli attacchi all’hotel Continental alle porte di Kabul nel 2011 e alle Ambasciate e al quartier generale di ISAF nell’aprile 2012. Se poi si considera che il “safehaven” in Waziristan è garantito dalla protezione dell’ISI, il servizio di intelligence pakistano, si può concludere che se la lotta al terrorismo ha fatto registrare diversi successi, si è ben lontani dall’aver sradicato il fenomeno. E di questo il Dipartimento di Stato è ben consapevole, dato che il 7 settembre il Segretario di Stato Clinton ha annunciato di voler far inserire la rete Haqqani nella lista dei gruppi terroristici internazionali. 
Non si tratta di un mero atto formale. E’ pur vero che già da tempo vari membri di Haqqani erano nella lista dei terroristi, ma l’inserimento dell’intera organizzazione segna un punto di svolta nei rapporti con il Pakistan che in un abile gioco di equilibrismi è riuscito a vendersi come alleato degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo e contemporaneamente dare rifugio ai gruppi radicali islamisti che strumentalizza per mantenere un’influenza sull’Afghanistan e per esercitare pressione sul governo Karzai, ritenuto troppo filo-indiano.
Il Pakistan è anche una potenza nucleare e di questo non si potrà non tenerne conto, quando gli assetti verranno rimessi in gioco nel 2014 e il gioco di alleanze e influenze subirà un rimescolamento. Ma certamente i numeri del Country Report on Terrorism 2011 non sono sufficienti per poter descrivere un quadro positivo per gli anni a venire.
You are here