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Siamo ancora liberi di informare?

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di Gino Falleri
La crisi economica, che ha investito i paesi mediterranei dell’Unione Europea Portogallo compreso, e la tecnologia sempre più sofisticata, ma invadente, si fanno sentire non poco pure nel mondo dell’informazione. Si chiude, si riduce e si trasforma. Tanto che si potrebbe ripescare una massima latina, mala tempora currunt, quale termometro della situazione in cui si trovano le aziende editoriali e i giornalisti in quasi tutte le latitudini del pianeta, nonché per le difficoltà che quest’ultimi incontrano per dare un seguito al diritto di informare. 
Un diritto che da noi è assicurato dall’articolo 21 della Costituzione, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalle sentenze della Corte costituzionale. Comunque non sempre tenuto nella dovuta considerazione da chi lo dovrebbe.
La grande stampa, quella che ha maggiore seguito e diffusione,  non dedica eccessivo spazio agli eventi, positivi o negativi, che hanno per oggetto la libertà di informare, tranne quando si vogliono imporre dei bavagli, o come risolvere la grave situazione in cui si dibatte l’editoria in generale. A cominciare dalla pubblicità in caduta libera per le tante tasse ed imposte che gravano sulle aziende produttive. Dal 2014 le provvidenze pubbliche saranno distribuite con il contagocce e di conseguenza l’occupazione subirà una nuova contrazione. Quest’anno si sono fermate a 70 milioni con il rischio di chiusura di 90 testate e l’uscita di circa 4000 posti di lavoro in bilico.
Se si vuole sapere qualcosa di più bisogna andare su Internet e collegarsi con Freedom of House o Reporter sans frontiéres. Solo così si apprende che la Turchia, più volte indicata quale possibile nuovo membro dell’Unione europea, detiene il record mondiale dei giornalisti imprigionati. Il governo presieduto dall’islamico Erdogan ha quest’anno incarcerato 76 giornalisti e di questi 61 sono in cella per quanto hanno scritto e riferito. Secondo il “Comitato per la protezione dei giornalisti” di New York il primo ministro turco è impegnato in “una delle più vaste campagne di repressione della libertà della stampa nella storia recente”.
Anche in Italia si può venire incarcerati per i reati di opinione, si determinano alti risarcimenti per aver messo in cattiva luce la reputazione di personaggi pubblici o si è condannati per omicidio colposo per aver omesso di segnalare possibili movimenti tellurici in una zona ad alto rischio. Per quest’ultimo aspetto dovremo aspettarci dalle autorità di Bruxelles nuove reprimende, e non solo da  esse, ed una ulteriore caduta nella considerazione della comunità internazionale. Tutte le volte che siamo stati convocati davanti ai giudici della Corte di Strasburgo non siamo usciti con successi in mano.
 
E’ l’editoria nel suo insieme a preoccupare il sindacato per via della riduzione degli organici - in Spagna “El Pais” ha in gestazione un piano di ristrutturazione con un drastico taglio di 150 giornalisti mentre in Germania crolla audience e calano le vendite dei giornali -, delle vertenze in atto, della diminuzione delle provvidenze pubbliche e per non avere valide sponde per varare misure atte a contenere la crescita esponenziale degli addetti. L’offerta è quella che è. Per ora c’è chi se la prende con i pubblicisti. 
Li vogliono cancellare e guarda caso sono gli ex pubblicisti, ora professionisti, ad essere i più determinati. E’ sufficiente scorrere le firme di un documento fatto circolare nell’ultima seduta del Consiglio nazionale dell’Ordine dal gruppo denominato “Liberiamo l’informazione”. E’ stata persino inserita una nuova regola: le sentenze non si pronunciano, ma si “emanano”, come i provvedimenti legislativi o amministrativi. Poi ci sono i falsi amici, i più pericolosi.
Da non dimenticare, per un quadro più esaustivo, che con la tecnologia sempre più sofisticata il giornale cartaceo sta andando in soffitta, anticipando nella pratica quanto aveva sostenuto Philip Meyer, prima giornalista e poi docente dell’università della North Caroline, nel suo libro dal titolo “The vanishing newspaper: saving journalism in the information age”. Sono di questi ultimi giorni gli annunci dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti che hanno per oggetto il “Guardian”, diretto da Alan Rusbridger, che andrà on line e dal prossimo anno pure “Newsweek”.
E’ stato accennato ai reati di opinione. Su di essi ha più volte richiamato, senza successo, l’attenzione dell’opinione pubblica dalle colonne di “Prima Comunicazione” l’avvocato Oreste Flamminii Minuto, da poco scomparso. Sull’argomento ha pure pubblicato un libro dall’emblematico titolo: “Il conflitto tra stampa e potere in Italia”. Ebbene, il motivo dell’accenno ha una sua ragione e riguarda appunto un giornalista, che è stato ritenuto pericoloso dalla magistratura giudicante ed ha inoltre affermato che non esiste il diritto di mentire. Una affermazione che costituisce un  precedente giurisprudenziale da non sottovalutare. 
La conferma da parte della Cassazione del giudizio formulato dai giudici di merito sull’omesso controllo da parte di Alessandro Sallusti, quando era il direttore di “Libero”, è stata la molla per riprendere in esame i reati di opinione, che collidono con la libertà di manifestare il proprio pensiero. Il Parlamento si è subito accinto  a fare. In Senato c’è già un testo, non da tutti condiviso, che mira a cancellare in parte le norme del codice Rocco, il ministro del governo di Benito Mussolini che nel 1930 ha fatto approvare il codice penale. In quel codice ad ottantadue anni di distanza albergano ancora norme e pene illiberali per i cosiddetti reati di opinione, che i partiti democratici non hanno finora depennato. 
Le anticipazioni che circolano sulla reale volontà dei legislatori, compresi i retroscena, sono a loro volta “ademocratiche” e hanno, sia consentito, un vago sapore di vendetta. Niente carcere, ma multe salate e sospensione dalla professione. Una facoltà attribuita al giudice. Ma gli istituendi Consigli di disciplina cosa ci stanno a fare? Di qui l’iniziativa della Fnsi, sempre attenta sulla difesa del diritto di informare, volta ad organizzare un presidio al Pantheon per richiamare l’attenzione sulle anomalie che ancora gravano nel nostro paese. 
Di certo 14 mesi di reclusione per omesso controllo su di un articolo a firma Dreyfus e non redatto, e senza il beneficio della condizionale, è difficile ad accettare, anche se la sentenza dei giudici di piazza Cavour motiva il perché. Comunque non ha precedenti nell’Unione europea, che con la Corte di Strasburgo è molto attenta ai reati di opinione e non lesina condanne ai paesi che comprimono la libertà di informare. Appare eccessiva rispetto ai quattro anni di reclusione inflitti a quella signora che ha investito ed ucciso un bambino, dandone inizialmente la colpa ad un terzo.
Come andrà a finire lo sapremo nei prossimi giorni. Dal Senato dovrà uscire un provvedimento di legge che dirà se i giornalisti sono ancora liberi di informare, e i cittadini di domandare informazione, o debbono invece essere oltremodo cauti nel raccontare  cosa succede dentro e fuori del Palazzo. Non ricorda qualcosa quest’ultima ipotesi?
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