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Il ruolo trainante dell’Unione Europea nelle politiche di pari opportunità

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di Fiorenza Taricone (*)
L’articolo 119 del Trattato CEE del 1957 dove si riconosce la parità di retribuzione ha costituito una pietra miliare per il divieto di discriminazione, visto come principio base, inderogabile, del diritto europeo, diventando all’interno della Corte di giustizia europea uno dei principi fondamentali della Comunità, slegandosi dal carattere economico. 
Nel 1975 la Dir.75/117/Cee sulle politiche perseguite dai vari Stati per l’applicazione del principio sulla parità di retribuzione ha affermato come questo principio implicasse per uno stesso lavoro o per uno cui è attribuito un valore eguale, l’eliminazione di qualsiasi discriminazione basata sul sesso in tutti gli elementi e le condizioni delle retribuzioni. Nell’applicazione pratica della parità retributiva tre sentenze sono solitamente prese ad esempio: il primo caso ha riguardato una discriminazione retributiva a carico di una hostess delle linee aeree belga, Sabena, Gabrielle Defrenne, che si era rivolta al Tribunal du Travail di Bruxelles. La Defrenne aveva percepito dal 15 febbraio 1963 al 1 febbraio 1966 giorno di scadenza del suo contratto per limiti d’età, in quanto nelle assunzioni del personale femminile la compagnia prevedeva una clausola di limite d’età, uno stipendio inferiore a quello dei colleghi di sesso maschile che svolgevano lo stesso lavoro come commessi di bordo, funzione parificata alle hostess di bordo. La Defrenne aveva quindi chiesto alle linee aeree il risarcimento degli arretrati, del danno per la mancata remunerazione, la liquidazione e la pensione. Il Tribunal du Travail di Bruxelles nella sentenza del 17 dicembre 1970 aveva respinto tutte le richieste della Defrenne ma questa, successivamente, aveva impugnato la sentenza dinanzi alla Cour du Travail di Bruxelles. La Corte con sentenza del 23 aprile 1975 aveva confermato il giudizio di primo grado per il secondo e terzo capo ma, conformandosi al dettame dell’art. 234 del Trattato istitutivo della Comunità si era rivolta al giudice comunitario chiedendo se l’art. 119 introducesse direttamente il principio di non discriminazione sessuale all’interno degli ordinamenti statali, indipendentemente dalla legislazione interna statale. Con la sentenza 8 aprile 1976 la Corte di Giustizia affermò la diretta applicabilità dell’art. 119 in quanto integrante del divieto di discriminazione previsto da norme di legge o dai contratti collettivi di lavoro di ciascuno Stato poiché dal preciso tenore dell’art. 119 emerge che l’applicazione del Principio di parità di retribuzione doveva essere garantito negli Stati membri originari in modo pieno e definitivo. Per l’applicazione dell’articolo, la Corte distinse tra “discriminazioni aperte e palesi” che si possono accertare con l’ausilio dei soli criteri di identità del lavoro e della parità di retribuzione indicati da detto articolo e discriminazioni indirette dissimulate che possono essere messe in luce solo valendosi di disposizioni di attuazione più precise di carattere comunitario o nazionale. 
Dalla sentenza Defrenne il principio di non discriminazione sessuale si è evoluto progressivamente. Nel 1977 Susan Jane Worringham e Margaret Humphreys si erano rivolte all’Industrial Tribunal del Regno Unito chiedendo in base all’Equal Pay Act del 1970 di essere risarcite per la presunta violazione della clausola della parità inserita nel contratto di lavoro poiché presso la Lloyds Bank Limited, il regime pensionistico era diverso tra donne e uomini. Tutto il personale maschile doveva versare alla cassa fino dall’assunzione e indipendentemente dall’età, il 5% dello stipendio, considerato stipendio del dipendente,mentre per le donne il contributo partiva dal compimento del 25° anno d’età. La conseguenza era quindi che l’uomo che aveva iniziato a lavorare prima dei 25 anni avrebbe percepito rispetto alla donna maggiori contributi e tra questi avrebbero fatto parte anche gli interessi sulla quota versata prima dei 25 anni. Poiché il Tribunale respinse il ricorso, le ricorrenti si rivolsero all’Employement Appeal Tribunal che accolse la domanda, evidenziando la disparità di retribuzione ai sensi dell’Equal Pay Act. Il Lloyds ricorse in appello alla Court of Appeal di Londra la quale a sua volta si rivolse al giudice comunitario chiedendo se nella definizione di retribuzione rientrasse anche il regime pensionistico complementare. Con la sentenza del 11 marzo 1981 la Corte di Giustizia europea rispose positivamente alla richiesta stabilendo che il contributo ad un regime di pensione versato dal datore di lavoro costituisce una retribuzione ai sensi dell’art. 119, 2° comma del Trattato Cee, articolo che poteva essere fatto valere dinanzi ai giudici nazionali. 
Infine, nel caso Kalanke del 1995 è stato trattato per la prima volta a livello europeo il problema delle azioni positive. Nel luglio del 1990 il Comune di Brema aveva pubblicato l’avviso della disponibilità del posto di direttore nel dipartimento comunale di giardinaggio: erano stati presi con considerazione il signor Kalanke, ingegnere diplomato in tecnica di giardinaggio e paesaggistica che all’epoca era aggiunto del direttore, e la signora Glissmann, diplomata in paesaggistica nel 1983. Entrambi lavoravano all’interno del settore. Dopo il fallimento delle  trattative tra la direzione generale del dipartimento che sosteneva Kalanke e il Comitato del personale che sosteneva l’altra, si era giunti alla consultazione del comitato di conciliazione. Questo aveva dichiarato nel ’91 l’idoneità di entrambi, ma per la legge del Land sulla parità, la preferenza andava data al candidato femminile. Kalanke aveva impugnato la decisione davanti all’Arbeitsgericht di Brema che respinse il ricorso; si rivolse allora al Bundesarbeitsgericht che constatò la conformità della decisione del comitato di conciliazione con le norme giuridiche in quanto si rivolgeva a candidati di pari qualifica. Non si trattava quindi di un vantaggio accordato alla Glissmann, in quanto donna e confermò che nel settore le donne erano sottorappresentate. La Corte quindi concordò con le decisioni del Comitaton (1). 
L’impegno della Comunità contro la discriminazione femminile si è ulteriormente concretizzato con la raccomandazione n.96/694 del 2 dicembre 1996 del Consiglio sull’uguale partecipazione delle donne e degli uomini al processo decisionale e l’anno successivo con la direttiva n.97/80 sul divieto di discriminazione che imponeva al datore di lavoro, accusato di discriminazione l’onere della prova. Con il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore in Italia il 1° maggio 1999, importanti modifiche sono state apportate al Trattato istitutivo della Comunità Europea. Infatti, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione previa consultazione del Parlamento, può prendere provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni basate sul sesso, la razza, l’origine etnica, la religione, o le convinzioni personali, handicaps, l’età o le tendenze sessuali. Si dà quindi al Consiglio la possibilità di mettere in pratica misure che combattono azioni o atti di discriminazione, ricorrendo a strumenti quali i codici di condotta o le raccomandazioni. Già nel 1991 una raccomandazione della Commissione europea del 27 novembre aveva definito come molestia “ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale, o qualsiasi altri tipo di comportamento basato sul sesso, che offenda la dignità degli uomini e delle donne, ivi inclusi atteggiamenti di tipo fisico, verbale o non verbale”. 
Negli ultimi anni, si è giunti anche a una nuova definizione e regolamentazione di discriminazione diretta e indiretta. La direttiva comunitaria n.2002/73/C definisce la discriminazione diretta come “una situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto sia, sia stata o sarebbe tratta un’altra situazione analoga”. Quella indiretta come una situazione nella quale una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri che possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso rispetto a persone dell’altro sesso a meno che, detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per ilo suo conseguimento siano appropriati e necessari. La molestia sessuale è indicata come la situazione nella quale un comportamento indesiderato di tipo sessuale che si esprime fisicamente verbalmente o non verbalmente si manifesta con l’intenzione o con l’effetto di ledere la dignità di una persona e segnatamente, di creare un ambiente intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. 
La Comunità Europea ha avuto quindi un ruolo insostituibile di guida e di sollecitazione nell’impostare una politica  per la parità negli stati membri. Per alcuni versi vi tratta di una politica senza precedenti, poiché é la prima volta che dagli anni Ottanta si é cercato un approccio globale alla questione femminile attraverso l'elaborazione di una serie di Programmi di azione contenenti indicazioni per interventi sia nel campo del lavoro e delle professioni che nel privato, dalla custodia dei bambini alla condivisione del lavoro domestico. In realtà, questi Programmi di azione, così poco conosciuti, non sono stati recepiti, per lo meno in Italia, nella loro ampia portata, ma applicati solo formalmente, per quel che era indispensabile nei confronti dell'Europa.
Considerando le difficoltà intrinseche di affrontare una politica per i diritti delle donne, delle resistenze che incontra e del fastidio che provoca, bisogna riconoscere alla Comunità il grande merito di avere fatto della parità tra donna e uomo un serio principio ispiratore della sua politica.
Il fatto che siano poco discussi, conosciuti e attuati fa sorgere qualche perplessità non solo sulla reale volontà degli Stati membri, ma anche sulla scarsa capacità delle istituzioni paritarie nazionali, dei movimenti e delle associazioni femminili e delle donne in genere che non sanno coglierne tutte le implicazioni e richiederne l'applicazione integrale.
In generale senza la funzione di stimolo della Comunità non vi sarebbe stata alcuna legislazione paritaria né le istituzioni nazionali per la parità che, con tutti i loro limiti, costituiscono comunque un’innovazione nel panorama politico tradizionale e il primo tentativo di impostare una politica complessiva per 1'eguaglianza.
Da questo punto di vista, bisogna sottolineare una grande differenza con il clima politico di fine Ottocento. Come rilevò una delle maggiori teoriche del femminismo, Anna Maria Mozzoni, nel 1877 la legislazione e le istituzioni politiche erano in ritardo rispetto all'evoluzione delle idee e dei costumi. Oggi esaminando i principi e i valori ispiratori dei Programmi bisogna notare che questi sono in anticipo rispetto alla mentalità generale e alle persistenti distinzioni di ruolo (2).
L’azione dell’Unione Europea può essere suddivisa in tre grandi periodi: il primo degli anni ‘60, il secondo degli anni ‘70, il terzo degli anni ‘80. Nel primo periodo l’accento era stato posto sulla difesa della parità di trattamento per donne e uomini per uno stesso lavoro. La carta Sociale europea entrata in vigore nel 1965 affermava nel Preambolo il principio di non discriminazione sessuale, e alcuni capisaldi della normativa comunitaria successiva, come la parità retributiva, la protezione della lavoratrice prima, durante e dopo la gravidanza, e il divieto della manodopera femminile in tutti i lavori dannosi, insalubri o inadatti. Negli anni ‘70 l’attenzione s’incentra sulla collocazione della donna nel mondo del lavoro, con strumenti sociali idonei a garantire la conciliazione dei tempi di vita familiare e professionale. Diverse Direttive comunitarie hanno sancito il principio di parità formale fra lavoratrici e lavoratori, preparando i nuovi strumenti d’intervento degli anni ’80, segnati dall’aggravamento del tasso di disoccupazione femminile per mirare ad una concreta parità di opportunità; a questo riguardo è stata utilizzata l’esperienza americana delle benign gender classification, espressione che indica negli Usa le azioni positive a favore delle donne.  Questo terzo periodo è aperto dalla cosiddetta Risoluzione dell’11 febbraio 1981 sulla Situazione delle donne nella Comunità europea, adottata dopo la Conferenza di Manchester Uguaglianza della donna: bilanci, problemi e prospettive. Un progetto europeo (28-30 maggio 1980 organizzata dalla Commissione europea in associazione con la Equal Opportunities Commission del Regno Unito, nonché sui risultati della Commissione ad hoc del parlamento europeo per i diritti della donna. 
Fondamentale è stato quindi il  ruolo assunto da allora in poi dal Programmi d’Azione, redatti dalla Commissione in collaborazione con altri organismi comunitari e i relativi Comitati del lavoro dei singoli stati membri. Le proposte dei Programmi d’Azione vengono dunque elaborate all’interno della Direzione della Commissione europea e presentate insieme a una proposta di bilancio al Consiglio dei Ministri dell’Unione europea. Nelle trattative che intercorrono,  un ruolo forte è svolto dal Comitato per i diritti delle donne del Parlamento europeo. Dopo l’adozione del programma e l’approvazione del bilancio, è istituito un comitato consultivo e la Commissione è responsabile del monitoraggio e della valutazione formale. I programmi sono influenzati anche dalle sentenze della Corte di giustizia europea sulla parità di trattamento che a volte possono essere in sintonia con la politica sostenuta dalla Commissione, altre volte in contrasto. Il I Programma d’Azione del triennio 1982-’85 prevedeva due tipi di proposte articolate in 16 azioni: le prime otto avevano come obiettivo di completare la parità di trattamento rafforzando i diritti individuali, cioè le prime otto Azioni, l’altra l’effettiva realizzazione della parità, con programmi di azione positiva, cioè le successive otto azioni. Sinteticamente le azioni si possono indicare nel modo seguente:
1. consolidamento e controllo dell’applicazione delle Direttive
2. ricorsi in materia di parità
3. revisione della legislazione protettrice nazionale e comunitaria
4. parità di trattamento in materia di sicurezza sociale
5. applicazione del principio di parità di trattamento alle lavoratrici autonome e agricole
6. regime fiscale e lavoro delle donne congedi parentali e per motivi familiari
7. congedi parentali e per motivi familiari
8. tutela della gravidanza e della maternità
9. sviluppo delle azioni positive
10. inserimento nella vita attiva
11. scelte professionali
12. soppressione della segregazione in materia di lavoro
13. tendenze in materia di lavoro
14. applicazione del principio di parità alle donne immigrate
15. ripartizione delle responsabilità professionali, familiari e sociali
16. evoluzione delle mentalità.
Gli obiettivi che ebbero importanti conseguenze anche in Italia erano la corretta applicazione delle direttive, la sensibilizzazione nei confronti degli imprenditori, dei sindacati e delle associazioni femminili, la realizzazione di ricerche, con l’adozione di azioni positive nella formazione professionale, negli stages e a sostegno delle cooperative di donne, mettendo a nudo il più possibile la cosiddetta discriminazione indiretta, invertendo l’onere della prova, a carico del datore di lavoro o di chiunque compia la discriminazione, la promozione di leggi-quadro per lo sviluppo di azioni positive. Infine, contro la segregazione occupazionale femminile, la Commissione europea sollecitava provvedimenti per favorire l’ingresso femminile in settori non tradizionali e la diversificazione delle scelte professionali, che portavano con sé la creazione di infrastrutture per l’infanzia, e una nuova suddivisione delle responsabilità professionali, familiari e sociali tra uomini e donne. 
Il Programma a medio termine per il periodo 1986-‘90 prevedeva sette azioni quadro:
1. migliore applicazione delle misure esistenti
2. istruzione e formazione
3. occupazione
4. nuove tecnologie.
5. protezione e sicurezza sociale
6. ripartizione delle responsabilità familiari e professionali
7. sensibilizzazione ed evoluzione delle mentalità.
E’ evidente che l’accento è posto sulla divulgazione e migliore conoscenza delle legislazioni paritarie, mentre la Commissione si impegnava a promuovere il cosiddetto “dibattito allargato” cioè lo scambio continuato di contatti e informazioni tra le parti sociali per coinvolgere un numero sempre maggiore di soggetti e contesti comunitari. 
Il terzo programma (1991-1995) si colloca nel contesto della realizzazione del mercato unico, che imporrà alle imprese e ai lavoratori una maggiore competitività e l’ingresso a pieno diritto nella politica strutturale della Comunità della partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, con la loro piena valorizzazione. Appare per la prima volta il concetto di mainstreaming che amplia il concetto di pari opportunità entrando nella sfera politica e nella questione della distribuzione delle risorse. Alla base del programma c’è il rafforzamento della cooperazione tra i partners di parità cioè tra la Commissione, gli Stati membri, le autorità sia regionali che locali, e le parti sociali. La Commissione proponeva tre temi:
1. applicazione e sviluppo del quadro giuridico delle pari opportunità
2. integrazione della condizione delle donne nel mercato dell’occupazione
3. miglioramento della condizione delle donne nella società.
Per lo sviluppo di azioni positive destinate all’integrazione nel mercato del lavoro, la Commissione ha creato una serie di reti: la prima fu Donne nell’occupazione del 193 cui ne eseguirono altre come la rete Diversificazione delle scelte professionali, la rete Azione positiva nel settore privato, il Gruppo di lavoro sull’alta funzione pubblica fino ad arrivare al 1988 alla rete Iris, con lo scopo di preparare le donne al mercato unico. La rilevazione statistica di fondo era che le donne costituivano la maggior parte dei disoccupati di lunga durata e che le occupate lo erano in larga parte in lavori atipici, marginali, a tempo parziale, accentuando la segregazione. Le cause erano principalmente due: la discriminazione in materia di educazione e la difficoltà di accesso alla formazione professionale. Il pilastro vero e proprio fu il Now, con la possibilità di un cofinanziamento per la rivalorizzazione delle qualifiche femminili, la creazione di proprie imprese cooperative e il reinserimento nel mercato regolare del lavoro. 
Il Quarto programma d’Azione (1996-2000) ha posto l’accento in modo particolare sul mainstreaming, tenuto conto anche della IV Conferenza Mondiale sulle donne svoltasi a Pechino nel 1995, con una particolare insistenza sulla cooperazione allo sviluppo, e l’integrazione della parità tra donne e uomini in tutte le politiche e nei diritti umani.
Il programma intendeva attuare la migliore sinergia possibile al fine di:
1. mobilitare attorno alla tematica della parità di opportunità tutti gli attori socio-economici
2. promuovere la parità di opportunità quale elemento di adattamento del mondo del lavoro ai mutamenti in corso mediante l’utilizzazione dei Fondi strutturali
3. stimolare una politica di conciliazione della vita familiare e di quella professionale per uomini e donne
4. lasciare spazio ad una partecipazione equilibrata degli uomini e delle donne nel processo decisionale
5. rafforzare le condizioni per l’esercizio da parte delle donne cittadine o residenti nell’Unione di un ruolo di cittadine attive
6. appoggiare l’attuazione, il monitoraggio e la valutazione delle azioni condotte per raggiungere gli obiettivi. 
Il V Programma d’Azione si sviluppa su una linea di continuità con la Piattaforma d’azione adottata dalla quarta conferenza dell’Onu sulle donne, per la strategia europea in materia di occupazione avviata nel 1997 e le disposizioni in materia di pari opportunità stabilite dal trattato di Amsterdam. Su proposta della commissaria responsabile dell’occupazione e degli affari sociali Anna Diamantopoulou, la Commissione ha adottato una strategia quadro comunitaria per il 2001-2005 per definire un quadro d’azione in cui tutte le attività comunitarie possono contribuire ad eliminare le disuguaglianze e promuovere la parità. La Commissione ha individuato cinque settori d’intervento interconnessi:
1. Vita economica, con il rafforzamento della dimensione delle pari opportunità nella strategia europea per l’occupazione, l’incentivazione dell’uso dei fondi strutturali a favore della parità, l’elaborazione di strategie per favorire l’inserimento della dimensione della parità fra i sessi in tutte le politiche comunitarie che esercitano un impatto sulla situazione femminile nell’economia ad esempio politica fiscale, finanziaria, trasporti e ricerca.
2. Partecipazione e rappresentanza in condizioni di parità, con il miglioramento dell’equilibrio tra uomini e donne nel processo decisionale e politico, in quello economico e sociale, nell’equilibrio fra i sessi nella Commissione. 
3. Diritti sociali, con il miglioramento della conoscenza monitorando la legislazione comunitaria in campo sociale (congedi parentali, tutela della maternità, orario di lavoro, lavoro a tempo parziale, a tempo determinato), con l’inserimento della dimensione delle pari opportunità nell’elaborazione, attuazione e valutazione di politiche e attività comunitarie che influiscono sul quotidiano come la politica dei trasporti, i programmi per la salute pubblica, le politiche per i diritti umani, e il programma comunitario per la lotta alle discriminazioni.
4. Vita civile, con il monitoraggio della legislazione e giurisprudenza comunitaria  sulla parità di trattamento tra donne e uomini, proponendo eventualmente nuove normative, la promozione dei diritti delle donne in quanto diritti umani, la lotta contro la violenza a sfondo sessuale e la tratta delle persone a scopo di sfruttamento sessuale.
5. Evoluzione dei ruoli e superamento degli stereotipi, con il richiamo dell’attenzione sul rapporto uomo- donna e il superamento degli stereotipi legati al genere all’interno delle politiche comunitarie interessate e per mezzo delle stesse. 
Anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, del dicembre 2000, al capo III art. 23 infine, si recita che la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, lavoro e retribuzione. 
Per l’Italia, si è rivelata fondamentale la Raccomandazione della Comunità europea del 1984, n.85/635 nella quale si prevedeva la promozione di azioni positive  a favore delle donne,  invitando gli stati membri tra cui appunto l’Italia, ad adottare provvedimenti intesi a “eliminare la disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella vita lavorativa e a promuovere l’occupazione mista con la finalità di a) eliminare o compensare gli effetti negativi derivati per le donne che lavorano o ricercano un lavoro, da atteggiamenti, comportamenti e strutture basati su una divisione tradizionale dei ruoli all’interno della società, tra uomini e donne; b) incoraggiare la partecipazione delle donne alle varie attività nei settori della vita lavorativa nei quali esse siano attualmente sotto rappresentate in particolare nei settori d’avvenire, e ai livelli superiori di responsabilità per ottenere una migliore utilizzazione di tutte le risorse umane. 
In altri termini- con l’intento di realizzare un’effettiva parità dei diritti delle donne nella vita professionale- si sollecitavano gli stati membri ad adottare delle misure promozionali, finalizzate a conseguire un’eguaglianza di opportunità per le donne tanto nell’accesso al lavoro quanto nello svolgimento di un’attività professionale” (3). 
L’Italia rende concreta la Raccomandazione nel ’91, con la legge n.125 Azioni positive per la realizzazione della parità uomo- donna, ma la sperimentazione delle affirmative actions era già iniziata, con la nascita di organismi istituzionali, come il Comitato Nazionale presso il Ministero del Lavoro e la Commissione Nazionale Parità, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel 1984.
Se nel 1996, dopo la IV Conferenza Mondiale delle donne di Pechino, in Italia, fu creato il Ministero per le Pari Opportunità, si deve dunque, anche e soprattutto, alla spinta progressista dell’Unione Europea.  
E’ certamente in nome di questo denso passato nelle politiche di pari opportunità che l’Europarlamento ha negli ultimi giorni detto no a una Banca Centrale Europea tutta al maschile. E’ stato espresso, infatti, un parere negativo alla candidatura del lussemburghese Yves Mersch come componente del Comitato esecutivo, in sostituzione dello spagnolo Gonzalez Paramo, arrivato a fine mandato. Il Consiglio direttivo dell’Euro Tower è composto di 22 persone, tutti uomini; l’assemblea di Strasburgo ha spiegato che il voto è la reazione dei deputati all’intransigenza del Consiglio di non voler rispettare l’equilibrio di genere all’interno di un’istituzione nevralgica per l’Europa; anche se il no è stato di stretta misura, i segnali si erano già avuti. Nelle audizioni degli ultimi due anni, fra cui l’italiano Mario Draghi, i parlamentari avevano posto la questione della mancata presenza femminile. Sharon Bowles, la lib-dem britannica, aveva spedito all’aula la raccomandazione di non dare il via libera alla nomina di Mersch, che avrebbe perpetuato una situazione inaccettabile.  La promotrice della campagna è stata invece l’europarlamentare francese Sylvie Goulard, che ha affermato come non sia più possibile ignorare la metà della popolazione europea, le donne. E ha affermato che è a disposizione di chi ne vuole tenere conto una lista di donne competenti per la Bce, mentre si sta pensando di organizzare un’audizione informale per dimostrarne le capacità. 


(*) Docente di Storia delle Dottrine politiche e Referente Rettorale Pari Opportunità Università di Cassino e Lazio Meridionale
Presidente Associazione Nazionale Comitati Pari Opportunità (UniCpo)


Note

(1) F. Taricone, Una svolta decisiva: le politiche di pari opportunità, in Donne, politica, istituzioni. Percorso formativo all’Università di Cassino (2005-2006), Minturno, Caramanica, 2006.

(2) Ginevra Conti Odorisio, Ragione e tradizione. La questione femminile nel pensiero politico, Roma, Aracne, 2005, p. 239.

(3) Maria Luisa De Cristofaro, Il lavoro delle donne dalla protezione alla pari opportunità, in Gli studi sulle donne nelle Università: ricerca e trasformazione del sapere, a cura di G. Conti Odorisio, Napoli, Esi, 1988, p.142.

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