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La nuova leadership siriana del fronte anti-regime: qualche considerazione

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di Cristiana Era
Riuniti a Doha sotto la protezione del Qatar, le molteplici fazioni  anti-Assad hanno infine trovato una figura attorno alla quale riorganizzare la coalizione delle forze di opposizione. Si tratta dell’ex imam Ahmad Moaz al-Khatib, un geologo di 52 anni in esilio al Cairo dal giugno scorso. E prontamente Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Turchia e gli Stati del Golfo hanno dato la loro benedizione e riconosciuto ufficialmente il nuovo leader. Anche l’Italia, tramite il Ministro Terzi, ha avallato la scelta di Doha.
Al-Khatib viene considerato un sunnita moderato, ma non ha nascosto le sue simpatie per i Fratelli Musulmani che, a ben guardare, stanno lentamente e con poco rumore trasformando l’Egitto in un Paese islamico. Ora che esiste un nuovo leader approvato da una comunità internazionale fino ad ora incapace di trovare una soluzione, inclusi gli Stati musulmani che fino a poco tempo fa erano vicini al regime, si parla già della costituzione di un governo in esilio da riconoscere quale legittimo rappresentante del popolo siriano. E gli Stati Uniti, che sembrano non imparare mai né dalla storia né dai propri errori, per bocca di un portavoce del Dipartimento di Stato, dichiarano il proprio sostegno alla “Coalizione nazionale nel suo percorso che punta a mettere fine al regime di Assad e a dare inizio al futuro pacifico, giusto e democratico che il popolo siriano si merita”. 
Che il futuro della Siria possa essere pacifico è una speranza di tutti, ma al momento rimane solo questo: una speranza. La situazione in Libia e anche quella in Egitto, con un occhio puntato anche sulla Tunisia, dovrebbe invece far propendere per dichiarazioni un po’ più caute, soprattutto quando si parla di processi democratici in aree dove la democrazia (nel senso in cui la intendiamo in Occidente) non fa parte della cultura locale e non si sono mai sviluppate delle fasi storiche paragonabili all’Illuminismo europeo che abbiano potuto creare gli embrioni di un suo futuro sviluppo. Che la democrazia voglia il suo tempo per radicarsi e che non si trapianti dall’oggi al domani è ormai un fatto ampiamente riconosciuto da politologi e analisti. Così come viene riconosciuto che un governo eletto con libere elezioni non necessariamente porta ad una garanzia del rispetto delle libertà di tutti. Ce lo ha dimostrato il regime nazista in passato, ce lo sta dimostrando la Libia contemporanea, ancora dilaniata dalla violenza, dall’impasse politico e dagli interessi tribali. Ce lo sta dimostrando l’Egitto dei Fratelli Musulmani, che insieme alle forze salafite cercano di imporre la shari’a come legge suprema così come impongono il velo alle hostess della compagnia di bandiera e alle presentatrici della TV. E ce lo dimostrano i tentativi degli integralisti islamici in Tunisia di togliere il concetto di parità tra uomo e donna nella Costituzione, inserendo un generico concetto di “complementarità”, che potrebbe essere facilmente interpretato come sottomissione da un tribunale religioso.
Per poter giungere ad un vero processo democratico in Siria occorre pensare oggi – e offrire garanzie – ad una pacificazione delle parti domani. Senza riconciliazione il dopo-Assad in Siria rischia di diventare il tempo delle vendette. Lo sanno bene l’apparato e i siriani che sostengono ancora il regime: la loro è una battaglia per la sopravvivenza. Ecco perché Assad è ancora ben saldo al potere. Dalla sua parte ha, inoltre, la poca credibilità dell’opposizione, che grida alle violazioni dei diritti umani dell’esercito regolare, ma che poi a sua volta fa strage sia di civili che di militari disarmati e con l’appoggio dell’Osservatorio Siriano per i diritti umani – che “osserva” poco stando a Londra – falsifica i dati, inventa storie di cittadini sfuggiti dalle grinfie del regime, pubblica o fa pubblicare casi di discriminazione di varia natura. E nonostante sia venuto alla luce l’inaffidabilità dei numeri dell’Osservatorio, l’ONU continua ad utilizzarli come dati ufficiali. Perché la guerra del XXI secolo è soprattutto guerra di informazione, se si vuole raccogliere finanziamenti, armi, sostegno politico e  legittimità. Se a tutto questo si aggiungono le infiltrazioni dei gruppi terroristici islamici, almeno un ragionevole dubbio sulla futura democrazia in una Siria libera dagli alawiti dovrebbe pur sorgere. E dovrebbe preoccupare la dichiarazione britannica di voler chiedere l’abolizione del divieto di fornire armi alla nuova leadership anti-regime. 
Damasco nel frattempo non resta a guardare: le armi le ottiene già dall’Iran, dal Libano di Hezbollah, dalla Russia e forse anche dalla Cina. Russia e Cina hanno anche contribuito allo stallo delle Nazioni Unite e sul cui appoggio Assad può ancora contare. I colpi di mortaio alla frontiera del Golan contro Israele, più che l’inizio di una nuova guerra contro lo Stato ebraico, sembrano piuttosto voler sottolineare che Assad può in qualunque momento infiammare l’intera area. Ammesso che i colpi di mortaio arrivino davvero dalle forze di Assad e non dalle forze di opposizione stesse, che forse avrebbero un interesse maggiore ad allargare il conflitto. Pochi sembrano essersene resi conto. Tranne Israele, che rimane a guardare l’evoluzione e che, molto più intelligentemente delle cancellerie europee, non crede che la caduta di Assad sia imminente.
L’approvazione generale e immediata per la nuova leadership siriana ricorda molto il frettoloso e inappropriato entusiasmo occidentale per la primavera araba: non si valutano appieno le conseguenze e i personaggi, ma si deve dare l’idea, qualunque essa sia, che la comunità internazionale dia voce e sostegno al popolo siriano. Non resta che sperare che qualora dovesse arrivare al potere, “questo” popolo siriano non stermini l’”altro” popolo siriano che per interesse, paura o perché contro la violenza, non ha combattuto a fianco della parte vittoriosa.
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