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2013: un’equazione con molte incognite

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di Aroldo Barbieri 
Cosa dobbiamo attenderci dal 2013? E’ rituale, ad inizio anno, chiedersi se quello che è cominciato sarà un anno migliore rispetto a quello trascorso, ma nel caso concreto, con la crisi più profonda da molti anni (il raffronto con quella del ’29 è improprio), che impone al mondo e all’Occidente in particolare di ripensarsi, la domanda più ricorrente è quella che corre su tutte le bocche: con il 2013 si uscirà dalla crisi? Sarebbe più corretto interrogarsi se riusciremo a risalire la china, ad arrampicarci dal punto più basso delle stessa, perché il traguardo è ancora lontano, in particolare per l’Italia. Sì, perché oramai nessuno crede più che questa sia una delle tante crisi del capitalismo.
L’economista Luigi Zingales ha giudicato difficile la ripresa, perché le crisi che attualmente si intersecano sono tre: quella dei mutui subprime esplosa in America, quella dell’Euro (che ha colpito soprattutto i Paesi deboli e indebitati della moneta unica), infine “la crisi del modello welfare occidentale”. Ma mentre la prima si sta risolvendo, le altre due, afferma l’economista, “sono ancora agli inizi”.
A mio modo di vedere, bisognerebbe in primis capovolgere le precedenze: il problema primo dell’Occidente tutto è quello di essere vissuto per decenni al sopra delle possibilità e aver creato debito per fare consumi, non per investimenti. La sbornia consumistica ha retto la borsa americana, i guadagni si sono trasferiti poi nell’immobiliare, fino alla patologia dei mutui subprime, che sono stati lo specchio e il detonatore di un capitalismo che dal “fare” era passato in modo molto rapido alla rendita, in gran parte perché il “fare” è stato affidato ai Paesi emergenti. In sintesi, mentre i grandi capitalisti hanno guadagnato (per interposta persona dei manager, impegnati a loro volta a far salire il corso delle azioni per avere più ricchi stipendi e stock options), facendo lavorare i popoli con basso costo del lavoro, i popoli dell’Occidente, pur lavorando meno e consumando più, hanno mantenuto lo stesso standard di vita, anzi per molti aspetti lo hanno migliorato. Ma tutto ciò “senza guadagnarselo”.
Come l’impero romano ai tempi della propria decadenza aveva il problema di risorse sufficienti a finanziare gli eserciti, per difendere confini troppo ampi dalle invasioni di barbari, che volevano partecipare al banchetto del benessere, oggi l’Occidente, a sua volta assediato dalle migrazioni, ha il problema di finanziare un welfare costoso e inefficiente, che va invece completamente ripensato, non solo “tagliato”. E qui la sfida è davvero difficile, perché chiama in causa una classe dirigente che appare in larga parte impari al compito, popoli abituati al benessere senza fare i conti con il merito, un concetto stesso di democrazia che, nato nell’800, è oggi palesemente superato.
Si dirà che da molto tempo le multinazionali avevano adottato il sistema di produrre in tutto il mondo, ma senza la rivoluzione informatica, che ha ridotto, sino quasi ad annullarli, lo spazio e il tempo, senza lo sviluppo della comunicazioni via cellulare etc. la rivoluzione economica e le rivoluzioni politiche e socioeconomiche in atto non sarebbero state così incisive (anche la prima rivoluzione industriale è stata resa possibile dalle conquiste scientifiche e tecniche del ‘6-‘700) e quella che chiamiamo “globalizzazione” non sarebbe stata quella che conosciamo. Perché mette sullo stesso piano la manodopera generica del cittadino occidentale con l’indiano o l’africano, il cinese e il sudamericano, schiacciando in basso il reddito dell’operaio occidentale, ma anche del terziario generico, quello del piccolo commercio, dell’artigiano, dell’impiegato “di concetto” e via dicendo.
Il superamento in Occidente del sistema di produzione “fordista”, che aveva gonfiato a dismisura il “ceto medio”, questa sì la vera causa della crisi che stiamo vivendo, alla fine della quale ci sarà un welfare diverso, un ceto medio “dimagrito” nei numeri e nelle ricchezze, una società più marcatamente divisa tra ricchi e poveri, come prima del ‘900 e un diverso rapporto tra PIL dei Paesi progrediti e di quelli emergenti, come nel secolo XVIII. Non per sempre, non per tutti, ma certo per un periodo significativo e per molti cittadini “qualunque” dell’Occidente, il cui merito era ed è quasi solo l’essere nati in un Paese evoluto, piuttosto che in uno arretrato.

Popoli e populismi, Europa e Italia

Se le cose stanno così, verrebbe da auspicare un ritorno al dominio dell’aristocrazia, ma è chiaro che non solo sarebbe improponibile socialmente e umanamente, ma neppure utile e produttivo. Il sistema capitalista (che a parte le patologie è quello che garantisce maggiormente lo sviluppo) prospera mettendo in gioco i grandi numeri. Ma, si sa, che le rivoluzioni le fanno le minoranze attive, che dovrebbero garantire insieme al proprio vantaggio quello generale, le élite, ma anche i popoli. E’ per questo che non si deve cedere ai “populismi”, intendendo con questo il sollecitare in popoli senza meriti il mantenimento di quei benefit che oggi appaiono non più sostenibili. Per garantire il popolo da una discesa troppo drastica dallo standard di vita precedente  bisogna dar vita ad un sistema “democratico” (quindi con centralità delle maggioranze), ma qualitativo e selettivo, che sappia premiare l’impegno, il mettersi in gioco, il sapere. Reintrodurre insomma una graduatoria, evitare l’appiattimento in basso.  Questo lo si ottiene dando importanza all’istruzione, alla ricerca, alle nuove forme di conoscenza, all’originalità,  perché dalla sofistica in poi il progresso (e con esso la ricchezza) è legato non alla nascita, ma al sapere, alla conoscenza.
“Cambiare l’Italia, riformare l’Europa” si intitola la cosiddetta “agenda Monti”. Se la parole hanno un significato (come poi chiarito in parte nei passaggi successivi), mentre per l’Europa serve più popolo, più democrazia nelle decisioni, più partecipazione (“ Il prossimo parlamento europeo dovrà avere un mandato costituzionale”per un Europa “più democratica, meno distante dai cittadini”) per l’Italia le riforme non bastano è necessario cambiare, cambiare marcia, abbandonare quelle distorsioni che ci hanno caratterizzato per troppi anni e di cui hanno approfittato quasi tutti: evasione fiscale e contributiva, scarso rendimento a scuola e nel lavoro (con relativo appiattimento in basso), difesa di casta (non solo quella della “politica”), burocratizzazione, rendite di posizione, localismi esasperati, abusivismo edilizio, furbizie e illegalità varie.

Il modello tedesco e quello americano

“Costruire un’economia sociale di mercato, dinamica e moderna”. Questo il titolo dell’ultimo capitolo di un’agenda che vorrebbe far collaborare maggiormente datori di lavoro e lavoratori (sul modello tedesco), magari con la compartecipazione agli utili e che indica la “strada per la crescita” attraverso il conseguimento di “finanze pubbliche sane, a tutti livelli”. Chi potrebbe dissentire dal fato che un bilancio sano si basa su spese che non superano le entrate? Ma questo è un criterio ragionieristico. In determinati periodi è bene indebitarsi per investire. E’questo il momento? Sicuramente sì, ma con strumenti nuovi, perché l’alto debito di quasi tutti i Paesi dell’Occidente e dell’Italia in particolare non rende praticabili consistenti politiche “keynesiane”, di spesa pubblica (che va invece drasticamente riqualificata), mentre è certo che l’adozione in toto del modello fiscale tedesco (che si basa sul pareggio di bilancio e sull’abbattimento dei debiti pregressi in pochi anni porta alla rivalutazione della moneta e rende più difficile competere sui mercati esteri, a meno di una forte competitività del sistema Paese) può condurre il paziente alla morte prima del risanamento. Quindi sicuramente austerità e riqualificazione dei bilanci nazionali, ma anche manica larga per quello comunitario (l’Italia, contribuente netto deve imparare a sfruttare a pieno i finanziamenti della UE), nonostante il dissenso degli inglesi e in parte dei tedeschi. Se, come nota Zingales, gli USA sono usciti dalla crisi dei mutui suprime (e recuperato il PIL antecrisi) è perché non  hanno adottato il modello tedesco, ma hanno operato su due direttrici: incoraggiare il reinsediamento in America di attività in precedenza delocalizzate e stemperare le conseguenze della “droga consumismo” con un processo graduale di “disintossicamento”, ottenuto stampando moneta. Il tutto reso possibile dalla deflazione implicita nel ripiegamento dell’economia. Certo, ora che la fase acuta è passata e le banche americane sono tornate a fare utili alla grande, gli americani dovrebbero imbrigliare certi aspetti pericolosi delle finanza. Lo faranno? Speriamo di sì, come si deve auspicare che anche l’America riduca la spesa e risani le sue finanze. Il compromesso raggiunto sul “fiscal cliff” è ancora manchevole e nel 2013 il debito USA crescerà di altri 300 miliardi di dollari. Il presidente americano, uscito per ora vittorioso dal braccio di ferro con gli avversari repubblicani, ha riproposto un mercato comune “transatlantico” sul modello del Nafta, quello che lega Canada e Messico agli USA. Si tratta di una mossa economica, ma anche e soprattutto politica: gli americani temono che l’Europa divenga troppo tedesca, anche per il crescente antieuropeismo degli inglesi e la parziale perdita di significato della NATO, dopo il crollo dell’URSS.

Il “caso” Italia

L’Italia è proprio un “caso” a parte. Prima o quasi nel mondo per ricchezza, cultura, ingegnosità, stile di vita ammirato da ogni latitudine, (significativi precedenti nell’Italia del ‘500),  difficilmente viene presa sul serio. Chissà perché? Forse per la sua filosofia di vita, che ha evitato accuratamente ogni programmazione, quasi fosse un insopportabile limite alla libertà, alla fantasia: la filosofia del “fin che la barca va”, celebrata anche in un noto motivo di Orietta Berti. Ora la barca non va più e non va più da molti anni, da decenni. Già prima della caduta del “muro”, che ci aveva resi geopoliticamente indispensabili, già prima che il sistema di produzione fordista, basato sulla catena di montaggio entrasse in crisi per fastidio di chi vi era impiegato (ricordiamo la polemica sui lavori usuranti) e per l’affermarsi della robotica, l’Italia “cicala” aveva iniziato il proprio ridimensionamento. Tirare a campare; chiudere gli occhi davanti alle palesi distorsioni, alle illogicità, alla cattiva amministrazione, al nepotismo; l’appiattimento in basso dei migliori piuttosto che innalzare gli svantaggiati; l’acquiscenza verso una classe dirigente in parte gretta e inadeguata; l’accettazione di una cultura standardizzata e politicamente condizionata. Tutto per quieto vivere. Quasi uniche eccezioni le imprese impegnate nella gara internazionale, la parte della migliore burocrazia e di coloro che fanno ricerca davvero, che di solito sono costretti ad emigrare.
L’Italia non cresce da oltre 20 anni. E come meravigliarsi! Ma le premesse partono da più lontano, almeno dagli anni ’70. Consumato il vantaggio rappresentato da un costo del lavoro più basso e dall’intraprendenza, dalla volontà di crescere della generazione uscita dalla guerra (che avevano prodotto il “miracolo economico”) si è andati avanti svalutando la moneta (mentre paradossalmente accettavamo un’ Europa costruita sul modello tedesco) e, da quando siamo entrati nell’Euro, soprattutto comprimendo i salari e quindi la crescita del PIL. E’ vero che in precedenza i nostri difetti erano stati coperti dall’essere stati immessi nell’industria “fordista” al suo apice, con una grande industria di Stato, che faceva girare intorno a sé tanto indotto, e da tanta iniziativa privata. Ma poi, da brave cicale, abbiamo sperperato, ci siamo lasciati sedurre dalla demagogia di sinistra e dal populismo di destra, con il risultato odierno di avere tanta piccola impresa, scarsamente internazionalizzata e concorrenziale, nel momento che sarebbe stato necessario avere imprese esportatrici organizzate, con produzioni ad alto valore aggiunto.
Che dire del fatto che ogni 20 anni abbiamo bisogno di una sterzata, di qualche uomo più o meno provvidenziale, di una cura da cavallo?
E cura da cavallo è stata quella del 2012, ma indispensabile (a parte qualche distorsione, ma si sa che l’ottimo può essere nemico del bene) per ridurre lo spread, per calmare i mercati che si erano avventati sull’Euro, attaccando gli anelli deboli della catena, tra i quali l’Italia per il suo grande debito pubblico. Giustamente Zingales dice che la crisi dell’Euro non è finita, perché una moneta senza uno Stato alle spalle e senza una banca centrale vera è un’eccezione che può andare bene solo nei momenti di tranquillità. Ma le crisi possono far crescere, accelerare i processi e di questo i popoli europei stanno prendendo coscienza. Ma se non ci fosse stato S. Mario Draghi che ha fatto accettare alla Merkel la propria decisione, con la minaccia di intervenire sui mercati “senza limiti”, come si sarebbe salvato l’Euro l’estate passata e con esso l’Italia?
   
Dalla crisi del debito a quella del credito

Con la discesa dello spread al di sotto dei 300 punti la crisi del debito si è fortemente attenuata per l’Italia, ma è forte la difficoltà del credito: le banche, che hanno riacquistato anche con  i fondi dei LTRO della BCE parte del debito italiano (siamo passati dal 54% detenuto da mani estere al 35%) immesso sul mercato dalle banche straniere (tedesche e francesi fra le altre) sono in crisi di liquidità e lesinano i prestiti all’economia reale, alle imprese e alle famiglie, anche per via del crescere delle sofferenze. In attesa che il decollo dell’ESM, dell’Unione bancaria e della garanzia europea sui depositi spezzi il legame perverso fra banche e debito degli Stati, forse la BCE deciderà altre immissioni di liquidità, magari finalizzate a investimenti produttivi, per spingere la crescita. Sì perché la crescita debole non sarà nel 2013 problema solo dell’Italia, ma dell’intera Europa, un continente vecchio, a bassa crescita demografica e con un welfare complesso e costoso.

Per tornare a crescere

Premesso che l’Italia è solo piccola ma significativa parte dell’Occidente e che oramai l’Occidente stesso non riassume in sé il mondo, che la globalizzazione ci rende tutti interdipendenti e che quindi molto dipende dalla crescita della Cina e degli USA, dalla tenuta della Germania e degli altri Paesi cui si rivolgono le nostre esportazioni (medio oriente, nord Africa, Turchia, Russia etc.), l’Italia è chiamata in primis a ridurre il costo dell’energia, a tagliare la spesa scarsamente produttiva per aprire spazi al calo della pressione fiscale, a favorire il reinsediamento delle attività produttive delocalizzate, ma sopratutto ad un cambio di mentalità. Deve mettere da parte la logica del “fin che la barca va” (il che comporta in primo luogo la valorizzazione concreta del merito e del criterio della concorrenza che spinge la produttività), per per dare spazio alle proprie peculiarità, che non sono poche. Nel concreto: investire di più nel capitale umano, nell’istruzione, in ricerca e sviluppo. Quanto al welfare, dopo aver riformato le pensioni (ma sarebbe stato forse meglio lasciare maggiore libertà di scelta al singolo se andare in pensione con un assegno più basso, piuttosto che puntare su un innalzamento dell’età così drastico per tutti) bisogna ripensare il SSN, evitando di limitarsi ai tagli, mantenendone l’ossatura e il principio universalistico, ma affiancandogli mutue di categoria e assicurazioni sanitarie. Quanto al sistema produttivo, in attesa che la ripresa mondiale si incarichi di contribuire al suo rilancio (ma diversamente dal passato è indispensabile proporre prodotti nuovi e farli conoscere), sarebbe opportuno correggere le norme sul lavoro, seppure precario, e valorizzare due settori “italian stile”: l’agroalimentare e il turismo.
Vivere, mangiare e bere all’italiana, valorizzare le particolarità dei territori, lo stile italiano, che è moda, buon gusto, arte culinaria, vini d’eccellenza, patrimonio culturale. Insomma cultura, turismo e agricoltura. Quanto a quest’ultima non dovrebbe trattarsi solo di un ritorno al passato, di un nostalgico salto all’indietro al prima di un’industrializzazione anche selvaggia, ma dell’accesso al settore primario di giovani maggiormente acculturati e al passo con i tempi (che ne è della privatizzazione dei terreni demaniali a favore di giovani agricoltori promessa e mai attuata?). Molta parte del nostro Paese non si presta ad altro che ad agricoltura e turismo, anche per questo tanta industrializzazione forzata è finita nel nulla o è pesantemente passiva. Continuare a spendere per tenere in piedi un modello di sviluppo sbagliato e comunque superato (vedi alluminio e carbonsulcis) non giova. Bisogna aver il coraggio di girare pagina, senza cancellare quanto di buono è stato fatto, ma anche sterzando decisamente senza aspettare la manna dal cielo. E’ sempre difficile vederla cadere, ma in epoca di globalizzazione può risultare suicida un’attesa di conservazione, da fortezza Bastiani del “Deserto dei Tartari”.

Dal Pil al PIQ

Tornare a crescere è difficile per l’Italia più che per altri Paesi occidentali, perché abbiamo una popolazione vecchia, una gioventù abbastanza coccolata dalla famiglia e resa poco competitiva da una scuola che non forma neppure il carattere, perché abbiamo troppa piccola impresa, troppa burocrazia, una classe dirigente più attenta al proprio tornaconto che a quello comune, una litigiosità marcata. C’è dunque da essere pessimisti? Non necessariamente, perché gli italiani sono anche alacri, svegli, hanno voglia di imprendere se c’è il tornaconto o il bisogno. Hanno, se vogliono, una marcia in più, proprio come rovescio della medaglia dei loro difetti. E poi non c’è neppure da auspicare una crescita solo quantitativa, del PIL insomma. Campioni di un modello di vita ampiamente invidiato, fatto di buon gusto, di arte, di cultura, di buona tavola, possono, anzi debbono, buttare alle artiche il passato di crescita solo quantitativa e sfruttare la decrescita per puntare sulla qualità. Insomma il PIL può anche calare, ma se si coglie l’occasione per una trasformazione verso la qualità, allora la battaglia è vinta. Dal 2003 l’Italia importa meno materie prime. Male se il dato è interpretato quantitativamente, bene se l’uso delle materie prime è fatto risparmiando. Anche la brutta casa abusiva fa PIL, ma fa scendere il PIQ. Consumare meno energia, riciclare i rifiuti, rispettare il territorio, costruire case in linea con l’ambiente. Ecco la direzione verso la quale muoversi. Se lo faremo, quando arriverà la fine della crisi (tra due anni o tra due decenni), ci troveremo già sulla strada giusta, perché il consumismo, come lo abbiamo conosciuto non tornerà.

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