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L’informazione è come l’economia. Niente di nuovo per entrambi

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di Gino Falleri
La VII edizione del Festival internazionale di giornalismo di Perugia, conclusasi da alcune settimane, ha fornito non pochi spunti di riflessione su quello che potrebbe essere il futuro del giornalismo, che sta attraversando un momento di difficoltà mentre gli addetti crescono a ritmo serrato. Secondo alcune stime avrebbero superato quota 110 mila. Un numero eccessivo rispetto all’offerta, sempre più flebile, e non comparabile con altri paesi dell’Unione europea e con gli Stati Uniti, che seguono modelli diversi e si può non essere giornalisti per l’intero arco della vita terrena.
Noi abbiamo un modello e posizioni diverse. Il giornalismo è una professione, anomala si potrebbe aggiungere, non legata ad uno specifico titolo di studio. Il riferimento è un albo suddiviso in due elenchi, che indicano le diverse modalità per accedervi. Tutte le iniziative volte a dare un diverso assetto alla professione, a cominciare dai requisiti e dalle regole da rispettare, sono andate sempre a vuoto. Se è una professione  non si capisce quale possa essere la ratio di due elenchi e tanto meno il perché non ci debbano essere docenti esterni per affrontare quello che la legge indica come un esame di idoneità professionale mentre alcuni rappresentanti sostengono che sia invece un esame di stato.
Le difficoltà dell’editoria e quindi dell’informazione, intesa come sistema dove prestano la loro professionalità i giornalisti, hanno creato il problema del precariato, che dovrebbe innanzitutto essere risolto dal sindacato in quanto ha come compito fondamentale quello di assicurare situazioni di benessere e di stabilità. Ha il potere di dialogare e confrontarsi con il governo, possibilità che non è consentita agli enti pubblici. Questi debbono solo applicare la legge per conseguire gli scopi per i quali sono stati istituiti. Se si contrae l’offerta è sempre il sindacato ad indicare quali le possibili soluzioni, che debbono anche fare i conti con le direttive di Bruxelles. Ciò premesso il precariato è un problema di non poco conto. Non investe solo il settore giornalistico.
Un festival di grande caratura per i temi affrontati, per i relatori e per la partecipazione. Ha permesso di analizzare la situazione dal punto di vista occupazionale, in secondo luogo di dibattere su cosa consente o consentirà la presenza “invasiva” della tecnologia, che, detto senza tante perifrasi, riduce la presenza dell’uomo, ma ha pure concesso spazi di discussione ai problemi dell’Unione europea, che direttamente o indirettamente sono causa della contrazione dei posti di lavoro.

Sul tappeto non ci sono solo i problemi occupazionali, i bassi compensi e la crisi che investe pure i colossi dell’editoria. Ce ne sono altri che vengono tenuti ai margini, al borderline prendendo a prestito dall’inglese, che sono invece di notevole interesse. Solo ora, dopo tanto clamore, si riparla di diffamazione, di citazioni in giudizio con la richiesta di centinaia di migliaia di euro. Perché? Si è riproposto un nuovo caso Sallusti. Altra sentenza per reati di opinione senza condizionale. Comunque non sono gli unici problemi da affrontare. C’è ne sono degli altri, come quello dell’incolumità di chi ogni giorno fa informazione ed i dati che circolano, dopo l’ultimo meeting di Dublino della Federazione internazionale dei giornalisti, sono quanto mai preoccupanti.
A fianco dei problemi che affliggono il mondo dell’informazione, ci sono quelli correnti. Quelli che gravano su di un paese, che ancora non ha trovato la giusta strada per risolverli, e si avvale di una burocrazia ossessiva e di un fisco oltremodo eccessivo per quello che ritorna indietro. Il debito pubblico, che nasce con Cavour, lievita sempre poiché il fabbisogno risulta essere superiore alla previsione, nonostante manovre e manovrine. Poi c’è l’incubo di Bruxelles, per stabilire  cosa si possa fare o non fare.
Bruxelles è il punto di riferimento per tutti paesi dell’Unione e non sempre le misure suggerite trovano ampio consenso. Dopo la Grecia anche il Portogallo protesta per le misure di austerità. Durante il Festival si è anche parlato di Europa e dei suoi problemi di crescita. Per far comprendere come stiano realmente le questioni europee e renderle così a dimensione del cittadino elettore - l’anno prossimo sono in programma le elezioni europee - sono scesi in campo personaggi del calibro di Gianni Pittella, Antonio Tajani, Marc Tarabella, Lucio Battistotti ed Adriana Cerretelli. Non hanno mancato di far conoscere gli stati di disagio, le diagnosi e quali le possibili terapie. Pittella, per esempio, ha proposto di mettere fine a quei paradisi fiscali che sono all’interno dell’Unione stessa e questo sarebbe già un passo in avanti.
L’Unione europea, come tutti sanno poiché la vivono ogni giorno con tutto quello che riportano le cronache, è attraversata da una pesante crisi economica, che ha colpito soprattutto i paesi mediterranei, Francia compresa, e non sembra che sia avviata verso la fine. I disoccupati hanno raggiunto la cifra record di 26 milioni mentre non si hanno dati precisi sui sottoccupati. Secondo un articolo a firma di Dominique Berns, pubblicato da “Le Soir” e ripreso da Internazionale, “a soffrire per la mancanza di lavoro sono 45,4 milioni di europei, il 19 per cento della popolazione attiva”.
 Finora la principale ricetta per la sua cura, quella imposta soprattutto dalla Germania ed avallata da alcuni paesi dell’Europa centrale inclusa la Finlandia, è stata l’austerità, che incomincia a non essere condivisa da buona parte dei tedeschi. La manifestazione davanti alla sede della Bce, con tanto di cariche delle forze dell’ordine, lo ha dimostrato.
Tagli e tasse, lacrime e sangue. Non sembra che sia stata finora una ricetta idonea. Anzi. E’ cambiato poco. Secondo la rivista polacca “Do Rzeczy” le “politiche imposte dalla Germania”, quindi dalla Merkel, “stanno spingendo l’Europa verso l’abisso”. Sebbene la classe politica che ha governato o sta governando faccia capire che si incominciano a intravedere segnali di  una inversione di tendenza, che lascerebbero ben sperare. Su questi  segnali di una ripresa qualche dubbio serpeggia. E’ vero anche che il prof. Mario Monti, prima che scendesse nell’agone politico, qualcosa aveva detto al riguardo.
L’esperienza spinge a non prendere per oro colato quello che fanno sapere i governanti, che hanno sempre come riserva qualche sgradevole sorpresa da mettere in atto. Uno è quella delle pensioni e riguarda la fascia più debole. In cantiere c’è un provvedimento che riguarda quelle superiori ai 3.500 euro. Non è dato di sapere se lordi o netti. Ebbene, debbono essere ridotte. Non sarebbe più utile, anziché tosare ancora la gente, di spingere affinché il Pil cresca e con esso la ricchezza nazionale da ridistribuire? Il governo Letta finora ha sfogliato la margherita: Imu si, Iva no, Tares forse. Come andrà a finire?
Ancora una annotazione. Gl’italiani percettori di reddito, come ha messo in risalto una tabella di confronto pubblicata dal “Sole 24 Ore” e la cui fonte è Eurostat, subiscono una pressione fiscale del 43 per cento mentre le persone giuridiche del 27,5 per cento. Quasi da paesi nordici, ma con servizi inimmaginabili per noi italiani. Qualcosa dovrebbe essere ridotta, se non altro per aiutare i consumi. Ebbene, non appena si parla di contrarre il peso delle tasse,  gli enti locali fanno subito sentire la loro voce, sostenendo che non possono in mancanza di risorse fornire ai cittadini i servizi.
Quali? Le strade senza buche? L’illuminazione? Il trasporto pubblico? Cominciamo da quest’ultimo. Quanto perde all’anno l’Atac per i tanti portoghesi che lo usano senza pagare. Decine di milioni di euro all’anno. E come si viaggia? La risposta la dovrebbe fornire il nuovo Sindaco di Roma, il chirurgo Ignazio Marino. Prenda un mezzo pubblico alle otto di mattina. Si guardi intorno per individuare i portoghesi e controlli il resto. De visu si renderà conto della sporcizia, dei distratti con le macchine obliteratrici e che viaggiavano meglio i cavalli.

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