Europa - News and Society

European News Portal

  • Full Screen
  • Wide Screen
  • Narrow Screen
  • incrementa grandezza carattere
  • Default font size
  • Riduci grandezza carattere

Primavera Araba e Islam politico: la rivoluzione incompleta dei Gelsomini

E-mail Stampa PDF


di Cristiana Era
Il Medio Oriente e il Nord Africa sono in fermento. La Siria è riuscita a coinvolgere il Libano nel suo conflitto interno che assume sempre più i toni di uno scontro religioso interno all’Islam. L’Egitto è sull’orlo di una guerra civile (che difficilmente si risolverà pacificamente nel breve periodo), la Turchia deve anch’essa fare i conti con le proteste di piazza, l’Algeria deve fronteggiare la minaccia di gruppi jihadisti (per lo più provenienti dal Mali o dalla Libia) ma anche proteste interne di carattere economico e i sit-in del Movimento della Società per la Pace (l’equivalente dei Fratelli Musulmani) a favore del deposto Presidente egiziano Morsi.
In Tunisia, dove ha avuto origine il movimento della primavera araba con la Rivoluzione dei Gelsomini e dove i principi democratici sembravano aver attecchito più che altrove, si assiste ad una progressiva radicalizzazione del confronto sociale e politico. Anche qui, come in Turchia e come in Egitto, l’esperimento dell’Islam politico comincia a mostrare tutti i suoi limiti. E anche qui, l’atteggiamento inizialmente moderato dei Fratelli Musulmani, al potere con il partito islamico di maggioranza Ennahda, ha gradualmente  adottato toni e politiche volti più all’introduzione dei precetti della shari’a che non a risollevare il Paese dalle crescenti difficoltà economiche. Due omicidi politici eccellenti nel giro di pochi mesi non sono la causa delle proteste popolari, ma piuttosto il sintomo che i partiti islamici vacillano o comunque che la loro leadership ha paura della società laica e liberale e non sono disposti ad accettare l’ipotesi – democratica quanto le elezioni che li hanno portati al governo – di una eventuale alternanza alla guida del Paese. Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi, i due politici all’opposizione, sono stati uccisi con la stessa arma da esponenti salafiti: sono queste le conclusioni delle indagini che hanno portato a qualche arresto per soddisfare l’opinione pubblica in piazza ma che hanno omesso di investigare più a fondo sui mandanti. E sono in molti a pensare che negli omicidi politici ci sia il coinvolgimento della fratellanza. La magistratura tunisina è in gran parte allineata alla politica di governo, così almeno la dipingono i media locali.
Intanto la coalizione di maggioranza comincia a perdere i pezzi, qualcuno già dopo l’omicidio Belaïd se n’è andato da Ettakatol, partito minore che sostiene Ennahda: altro segnale che qualcosa rischia di spezzarsi fino al punto di non ritorno. L’ultimo sondaggio dell’agenzia Emrhod rivela una progressiva insoddisfazione della popolazione nei confronti della leadership al governo. Solo il 19,7% è contento dell’operato del Presidente, il 24,4% di quello dell’Assemblea Costituente Nazionale e il 28% di quello del governo, quest’ultimo in calo di ben 11 punti percentuale. Nelle intenzioni di voto Ennahda è passata dal 19,7% in giugno al 13% in luglio, all’indomani della morte di Brahmi: è la perdita di consenso più grande mai registrata fino ad ora dai sondaggi di opinione. E i due partiti alleati, il Congresso per la Repubblica (CPR) e Ettakatol, non se la passano meglio. Un altro sondaggio, quello dell’Osservatorio Nazionale della Gioventù, ha messo in risalto la quasi totale disaffezione della parte più giovane della popolazione tunisina: solo il 2,7% fa parte di un partito politico, mentre l’81,4% ha dichiarato di non avere un partito politico specifico di riferimento.
Quali conclusioni si possono trarre? I dati dipingono un Paese che ha avuto una rivoluzione a metà, una spinta dal basso verso il cambiamento nata su basi economiche e successivamente arrestata dall’inserimento dell’elemento religioso all’interno della classe governativa. Ennahda, sull’onda della mobilitazione di massa che chiedeva più trasparenza e meno corruzione, è riuscita ad inserirsi nel movimento di piazza presentandosi come forza islamica moderata capace di far convivere i valori tradizionali dell’Islam - rivalutati da molti come opposti alla corruzione e autoritarismo del regime di Ben Ali - con le richieste di una società più aperta e democratica.  Ha giocato a favore del partito la capacità organizzativa che contraddistingue i Fratelli Musulmani anche in altri Paesi arabi, a fronte di movimenti laici uniti nella protesta ma non sempre con un chiaro programma politico.
Una volta al governo, come in Egitto e come sembra stia succedendo anche in Turchia, la posizione dei partiti islamici si è radicalizzata sulle questioni religiose, sulla limitazione/abolizione di taluni diritti, tra cui quelli delle donne, garantiti anche sotto il regime di Ben Ali, e sul tentativo di dare consacrazione costituzionale alla shari’a.
Il malcontento e il distacco verso la classe politica è la punta dell’iceberg della crisi economica e sociale del Paese e della progressiva perdita di sicurezza. Il 64% dei tunisini ritiene che il pericolo terrorismo sia aumentato mentre il 74% crede che la situazione economica peggiorerà ancora. E in effetti, il Fondo Monetario Internazionale ha dichiarato che al Paese sono necessarie profonde riforme strutturali perché la Tunisia possa avere una economia solida e una crescita costante. L’istituzione internazionale punta l’indice soprattutto sull’elevato tasso di disoccupazione e sulle disparità regionali. Ma tra gli indicatori in negativo ci sono anche una bilancia commerciale in deficit e la crescita del debito pubblico, anche se tiene la crescita del PIL che nel 2013 dovrebbe variare tra il 3 e il 4%.
Il clima rimane negativo. Le tensioni socio-politiche non favoriscono gli investimenti e neanche gli aiuti dall’estero, soprattutto quelli dagli Stati Uniti, i quali mantengono una politica di prudenza in tutti i Paesi arabi in cui il vento della primavera non ha ancora smesso di soffiare nelle piazze, evitando accuratamente di far affluire prestiti e finanziamenti in contesti sociali instabili. E per gli Stati Uniti, così come per molti osservatori, la Tunisia è ormai diventata un Paese a rischio.
Sembra esserci un filo comune tra Egitto, Tunisia e Turchia: i partiti islamici sono usciti vincitori dalle urne dopo tre dittature che in vari decenni avevano comunque laicizzato in larga misura le rispettive società arabe. In tutti e tre i casi i Fratelli Musulmani, che hanno preteso rappresentare la parte “moderata” tra i partiti religiosi, sono riusciti a conquistare di diritto il governo del Paese tramite la prima espressione democratica di un dopo-dittatura: libere elezioni e pluralismo politico. Il caso della Turchia differisce in parte per la buona tenuta del partito Giustizia e Sviluppo (AKP) del Premier Erdogan per un decennio, grazie a politiche economiche che hanno garantito lo sviluppo e la crescita. Ma anche in questo caso, il recente pugno di ferro del premier contro le manifestazioni di piazza, la dura presa di posizione contro il rovesciamento del Presidente Morsi in Egitto e il giro di vite contro i vertici dell’esercito turco stanno cambiando la percezione di “democraticità” e di moderazione dell’AKP. Di contro, la Tunisia non ha – come invece è il caso di Egitto e Turchia – un esercito tradizionalmente forte e istituzionalizzato che è al contempo simbolo e tutore della laicità dello Stato contro ogni tentazione teocratica. Rimangono due sostanziali fallimenti di governo della Fratellanza Musulmana, che ha ristretto il concetto di democrazia ai risultati elettorali, e un governo, quello di Ankara, che comincia ad avvertire i primi segnali di instabilità. Si potrebbe forse dire che Turchia, Tunisia ed Egitto rappresentino rispettivamente le tre fasi del fallimento del governo islamico: dalle prime proteste, alla radicalizzazione della protesta, fino alla caduta stessa del governo. La rivoluzione continua, ma quale direzione prenderà è solo un’ipotesi con molte variabili.

You are here