Europa - News and Society

European News Portal

  • Full Screen
  • Wide Screen
  • Narrow Screen
  • incrementa grandezza carattere
  • Default font size
  • Riduci grandezza carattere

I nuovi interventi nel processo di riduzione dei costi della politica

E-mail Stampa PDF

de Cons. Paolo Luigi Rebecchi
Alla fine del 2012 il numero di persone che occupavano cariche politiche di origine elettiva ai vari livelli di governo (Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni), con i ruoli di parlamentari, ministri, sottosegretari, amministratori locali (ricomprendendo questi ultimi, rispettivamente, presidenti, assessori e consiglieri regionali, presidenti, assessori e consiglieri provinciali, sindaci, assessori e consiglieri comunali), era di  143.936 (1). I compensi complessivi percepiti dagli eletti in carica nel 2012 sono stati pari a euro 1.901.727.827 (2).
In totale quindi quasi due miliardi di euro a titolo di indennità varie, cui va aggiunto il costo per il funzionamento degli organi dello Stato centrale (Presidenza della Repubblica, Camera dei deputati, Senato della Repubblica, Presidenza del consiglio dei ministri) e per gli organi di regioni, province e comuni  (funzionamento di giunte e consigli).
Questa seconda voce di costo si aggira su un importo di circa 10-15 miliardi di euro (3).
Si tratta di somme di dimensioni rilevanti che evidenziano come il tema della loro complessiva riduzione non riguardi soltanto una generica “moralizzazione” della vita pubblica, né che si tratti, come spesso viene affermato di “poca cosa” e che “ben altre” sarebbero le spese da tagliare,  ma riguardi  anche un vero e proprio riassestamento  strutturale di tale categoria di utilizzo di risorse pubbliche.
Il tema dei “costi della politica”(4) (“…espressione con la quale si intendono,  in senso tecnico, i costi che derivano dal funzionamento degli apparati rappresentativi, correlati agli apparati politici..”(5), sembra avere un andamento “carsico” ovvero compare con una certa veemenza in momenti di forte contrasto politico, soprattutto in vicinanza delle competizioni elettorali, per poi inabissarsi in momenti di tregua istituzionale o di più o meno convinta collaborazione “bipartisan” fra le varie componenti  politiche (6). 
All’argomento riserva invece attenzione costante la procura generale della Corte dei conti che vi dedica un capitolo nel suo intervento annuale per il giudizio sulla parificazione del rendiconto generale dello Stato (7). 
Nell’articolo pubblicato nel settembre 2012 erano state descritte le iniziative di contenimento realizzate nel corso del 2011 (8) dove, si era osservato che gli interventi avevano soprattutto riguardato l’apparato statale (9), gli  enti istituzionali, i  comuni e le province ma non avevano hanno inciso significativamente sulle Regioni,  sia a regime ordinario che speciale.
Si era anche richiamato il tentativo, non concluso per “rinuncia” da parte della commissione incaricata (10), di parametrazione delle retribuzioni dei livelli apicali di governo e rappresentanza alle equivalenti posizioni istituzionali in sede europea.
Un’analisi comparativa si rinviene tuttavia in un  recente studio (11) secondo il quale l’Italia ha una spesa in valore assoluto seconda in Europa , pari a 39 miliardi di euro, molto vicina alla Germania (42 miliardi, che ha però una popolazione e un Pil molto maggiori), e molto lontana da Francia (25), Gran Bretagna (24) e Spagna (18)3.. In relazione invece alla spesa pro capite in relazione alla popolazione l’Italia spende oltre 200 euro  a testa più di paesi parago¬nabili come dimensioni, mentre i paesi che spendono ancora di più sono quelli più piccoli, con maggiori costi fissi. Tali costi hanno avuto una andamento rapidamente crescente con “…un aumento di quasi 20 miliardi rispetto al 1990: il costo della politica è raddoppiato…”.
L’analisi si sofferma anche sulle diverse componenti evidenziando che “…il costo del Parlamento italiano è quasi il doppio di quello francese e inglese: 1,6 mi¬liardi, contro 0,9 in Francia e 0,6 in Gran Bretagna. Sebbene nel secondo caso parte dei minori costi sia dovuta al fatto che i Lord non prendono un’indennità, il Parlamento italiano dovrebbe spendere quasi un miliardo in meno per allinearsi alle spese francesi e britanniche. Il Parlamento francese è di dimensioni paragonabili a quello italiano (920 parlamentari contro 945), quindi è la spesa per parlamentare a essere particolarmente elevata. Pa¬ragonando le dimensioni del Parlamento italiano con quelle di altri paesi si vede come quello italiano sia relativamente più grande, circa il 30%, ma a parte diminuire il nu¬mero dei parlamentari a 600-700 per riportarlo alla media dei principali paesi europei, ciò che colpisce è il reddito dei parlamentari, che nella maggior parte dei paesi è pari a circa due o tre volte il reddito medio, mentre in Italia è cinque volte tanto, praticamente il doppio rispetto a quanto considerato “normale” in paesi comparabili al nostro.  Il Parlamento italiano si distingue negativamente anche per l’entità dei vitalizi ricono¬sciuti agli ex parlamentari: la pensione media dei parlamentari francesi è inferiore al vitalizio minimo di quelli italiani, 2.700 contro 3.100€ al mese. Il costo complessivo dei vitalizi per il Senato è 86 milioni, e per la Camera 134. I contributi dei parlamentari hanno finora coperto una parte minuscola di questa spesa, circa il 10%. Con le recenti riforme, almeno per i prossimi parlamentari, i trattamenti saranno meno generosi. Il Quirinale costa molto più, e ha molti più dipendenti, di Buckingham Palace, dell’Eli¬seo francese, e della Presidenza tedesca. Nel primo caso potrebbe darsi che le funzioni politiche della Regina d’Inghilterra siano molto ridotte, ma ciò non è vero per la Francia, dove al contrario il Presidente ha molti più poteri. Nel 2000 il Quirinale aveva 1.859 addetti civili e militari, mentre l’Eliseo 923, col risul¬tato che mentre il Quirinale costava 151 milioni di euro, l’Eliseo ne costava 86. Negli anni successivi il personale è aumentato ulteriormente, almeno fino al 2007, quando si arrivò a 224 milioni di spesa complessiva. Il bilancio di previsione  del 2013 è di 349 milioni di euro, 244 milioni una volta de¬purato delle partite di giro e le riserve. Di questi, il personale costa 121,5 milioni e le pensioni 90,4. Negli ultimi sei anni il personale è sceso da 2.181 a 1.720 unità, e la tendenza è complessivamente al contenimento della spesa. Nonostante ciò, si rimane molto lontani dai più ridotti costi degli altri paesi: l’Eliseo costa 112 milioni.  Il bilancio del Ministero per gli Affari Esteri è di 1,6 miliardi. Una tale cifra è inferiore a quella di paesi europei paragonabili (la Francia e il Regno Unito spendono un miliardo in più), quindi non parrebbero esserci criticità che richiedano una riduzione del costo aggregato. Alcuni articoli e studi segnalano trattamenti economici particolarmente generosi, che potrebbero indicare rendite di posizione o inefficienze. Che le risorse possano essere meglio impiegate è verosimile, ma gli extracosti della politica non sembrano imputa¬bili alla rete diplomatica, e quindi vanno imputati all’apparato legislativo ed esecutivo, oppure a quello fiscale e finanziario. Un’altra fonte di costo della politica sono i finanziamenti pubblici ai partiti. Teorica¬mente aboliti con il referendum del 1993 e ricomparsi sotto forma di rimborso spese, il finanziamento ai partiti è stato limitato nel 2012: in base alla nuova legge, i finanzia¬menti dovrebbero aggirarsi attorno ai 100 milioni di euro annui…”. I costi della politica in Italia, intesi come costo dell’apparato legislativo, esecutivo, fi¬scale e diplomatico, “…sono elevati rispetto ai principali paesi europei. Con l’eccezione di paesi di piccoli dimensioni o con basso reddito pro capite, l’Italia spende la più alta frazione rispetto al Pil, quasi un punto in più rispetto alla Germania, la Francia, la Gran Bretagna e la Spagna. Riducendo quindi i costi della politica per portarli in linea con quelli europei, si potrebbero risparmiare teoricamente circa 15 miliardi di euro…”.
Nel corso del 2012 gli interventi sono stati operati inizialmente con l’approvazione della legge n. 96/2012, che quale ha ridotto della metà l’ammontare delle risorse pubbliche destinate annualmente, al funzionamento dei partiti politici, passando dai 182 milioni di euro del 2011 ai 91 milioni per il 2012, con specifica finalità di utilizzo esclusivo per lo svolgimento di attività politica (12). La disciplina dei contributi pubblici ai partiti era contenuta principalmente nella legge 157/1999, più volte modificata, da ultimo ad opera della cennata legge 96/2012. Le spese dei partiti e dei movimenti politici rimborsabili sono quelle sostenute per le campagne elettorali relative alle elezioni per la Camera dei deputati, Senato, Parlamento europeo e consigli regionali. Per le campagne elettorali, e relative spese, sostenute nelle circoscrizioni estere vigono specifiche disposizioni. E’ stato anche abrogato il fondo di garanzia per il soddisfacimento dei debiti dei partiti e movimenti politici maturati in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge 157/1999, così come prevedeva l’art. 6 bis, comma 2. Il meccanismo dei rimborsi è rimasto invariato per il 70 per cento, mentre il restante 30 per cento, è ancorato alla misura di euro 0,50 per ogni euro ricevuto dai partiti a titolo di quote associative e di erogazioni liberali annuali da parte di persone fisiche o enti (art. 2). Per accedere ai rimborsi, i partiti sono tenuti ad adottare un atto costitutivo ed uno statuto, pena la decadenza del diritto (art. 5), peraltro condizionato anche all’ottenimento di almeno un candidato eletto (art. 6). Per le elezioni regionali è prevista la distribuzione del fondo di competenza tra le regioni in proporzione alla popolazione residente. Il contributo spettante è corrisposto sulla base di quote annuali entro il 31 luglio di ogni anno (13). 
Quanto ai fondi erogati dalle Camere ai gruppi politici presenti in Parlamento (14), mentre la legge 515/1993 conferisce ad un apposito collegio della Corte dei conti il controllo sui finanziamenti ricevuti e sulle spese sostenute dai partiti e movimenti politici (ammessi alle contribuzioni) nel corso della campagna elettorale, la legge 96/2012 art. 9, pone a carico di una specifica Commissione, composta da cinque magistrati, designati dai vertici delle massime magistrature (Corte di cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti) il controllo sui bilanci dei partiti e dei movimenti politici. La commissione può servirsi di un sistema di sanzioni che possono arrivare anche alla decurtazione dell’intero importo dei contributi nel caso di mancata presentazione del rendiconto o di altre irregolarità. La norma ha introdotto un obbligo di trasparenza, con la pubblicazione dei bilanci sui siti internet dei partiti e delle Camere. Essa dispone, inoltre, in ordine alla destinazione dei contributi, la loro esclusiva finalizzazione al finanziamento dell’attività politica, anche ponendo alcuni vincoli per il loro impiego, come ad esempio investire la liquidità in strumenti finanziari diversi dai titoli pubblici degli Stati dell’Unione Europea. 
Circa le  spese delle regioni il decreto legge n. 174/2012, convertito con legge n. 213/2012, affida alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti il riscontro contabile sui rendiconti dei gruppi consiliari presenti nei consigli regionali. 
Si tratta di  una innovazione di notevole rilievo soprattutto simbolico in quanto interviene (al pari di quanto già evidenziato per le spese dei gruppi parlamentari) in un ambito nel quale era stata piu’ evidente la sottrazione a qualsiasi controllo delle modalità di utilizzo di tali risorse, ritenute finanche “private” in quanto assegnate a soggetti (i gruppi parlamentari o consiliari) di cui non era mai chiarita la natura giuridica soggettiva (soggetti privati o pubblici) e la conseguente incertezza sulla configurabilità in sede penale, di reati contro la pubblica amministrazione ovvero della configurabilità della responsabilità erariale.
Le vicende , note alle cronache, relative ad ingenti sottrazioni di risorse a gruppi politici nazionali o a gruppi consiliari regionali (15) hanno spinto il legislatore ad adottare le disposizioni di cui sopra (d.l. 174/2012) le cui prime applicazioni si sono tradotte in svariate delibere delle sezioni regionali del controllo della Corte dei conti sull’esito delle prime verifiche effettuate sui rendiconti riguardanti il 2012 (in www.corteconti.it). 
La stessa legge ha introdotto, sempre ai fini della riduzione dei c.d. “costi della politica” ulteriori misure, tese ad incidere sulle spese di funzionamento degli organi rappresentativi regionali, tra i quali: -riduzione del numero dei consiglieri e assessori regionali, nonché dell’indennità di funzione di carica e di esercizio per l’assolvimento del mandato di consiglieri e assessori regionali; - divieto di cumulo di indennità ed emolumenti. La Conferenza Stato-Regioni ha previsto un risparmio complessivo di circa 40 milioni di euro l’anno con l’adozione delle misure sopraindicate (16).
Quanto alle province è stato osservato che (17) una specificità italiana è dovuta alla ridotta dimensione demografica di molti degli enti stessi (38 su 107 registrano un numero di abitanti inferiore a 300.000) ed alla loro proliferazione (dal 1992 ad oggi sono state istituite 15 nuove provincie, di cui 11 con meno di 300.000 abitanti). Esse rappresentano l’1,35% della spesa pubblica complessiva del Paese (dato riferito al 2012). Con il c.d. “decreto salva Italia” (D.L. n. 201 del 6 dicembre 2011, convertito in legge n. 214 del 22 dicembre 2011) era previsto che, nell’ambito del piano generale di soppressione e accorpamento di enti ed organismi, le funzioni delle provincie fossero trasferite ai comuni ricadenti nel territorio, ovvero fossero assunte dalle regioni, “entro il 31 dicembre 2012”. Per quella data dovevano essere anche fissate regole procedurali con le quali gli organi politici elettivi provinciali dovevano essere cancellati e sostituiti da strutture composte da un numero variabile di persone, per un massimo di dieci, emanazione diretta delle amministrazioni comunali. Peraltro interventi successivi avevano subordinato la definizione di tali assetti all’adozione di una ulteriore legge (18). I richiamati provvedimenti sono stati incisi dalla Corte costituzionale, che con la sentenza n. 220/2013 del 3 luglio 2013 ha annullato, a seguito di ricorsi proposti da diverse regioni,  alcune delle menzionate disposizioni. La  sentenza è da più parti interpretata come una battuta d’arresto nel processo di semplificazione dei livelli di governo (19). In particolare la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale  dell’articolo 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20, del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011,  degli  artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012 e dell’art. 23, comma 20-bis, del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011 riguardanti la “…normativa recante la cosiddetta riforma delle Province…”, precisando tuttavia che la contrarietà a costituzione di dette norme non riguarda “il merito” delle scelte legislative sul ruolo dell’ente provincia ma lo “strumento” del decreto legge (art. 77 della costituzione) utilizzato per intervenire (20). 
Il Governo ha peraltro presentato (consiglio dei ministri del 5 luglio 2013, in www.governo.it) un disegno di legge costituzionale , il cui art. 1 prevede espressamente “1. Sono abolite le province…”, con la contestuale modifica degli artt. 114, 117, 118, 119, 120, 132, 133 della Costituzione, dai quali è cancellato ogni riferimento all’ente “provincia”.



Note

(1) S.NOTTOLA, Procuratore generale della Corte dei conti, Memoria per il giudizio di parificazione del rendiconto generale dello Stato 2012, Corte dei conti, Sezioni riunite, udienza del 27 giugno 2013 (est. Federici). Il  documento riporta in dettaglio una tabella con i dati numerici delle persone elette o in carica alla fine del 2012: Parlamento nazionale/europeo/governo n. 1067; regioni n. 1356; province .3853; comuni n. 137.660; totale 143.936

(2) S.NOTTOLA, op.cit. : “..compensi percepito dagli eletti nel 2012: Parlamento euro 439.732.000 (di cui Camera dei deputati euro 297.850.000 e Senato euro 141.882.000); regioni euro 800.702.827; comuni euro 556.593.000; province euro 104.700.000; totale 1.901.727.827

(3) P.MONSURRO’, I costi della politica in Italia, Istituto Bruno Leoni, -Focus, 22 marzo 2013-www.brunoleoni.it- “…In tempi di ristrettezze fiscali si sente spesso parlare dei costi della politica. Per alcuni tagliare tali costi sarebbe una panacea, per altri comporterebbe ri¬sparmi trascurabili. La verità sta nel mezzo: i costi della politica in Italia sono effettivamente ingenti, superiori a quelli dei paesi europei paragonabili (Ger¬mania, Francia, Gran Bretagna, Spagna). Occorre distinguere i costi della po¬litica come rimborsi, indennità e vitalizi per i politici, e il costo complessivo del funzionamento degli organi legislativi, esecutivi e diplomatici1. È in questa seconda categoria che l’Italia spende circa un punto di Pil più degli altri paesi, cioè 10-15 miliardi…. La classificazione per funzione (Cofog) della spesa pubblica classifica i costi della politica sotto la categoria “Servizi Generali”, e divisione “Organi esecutivi e legislativi, attività finanziarie e fiscali e affari esteri”. Tale classificazione con¬sidera insieme il Parlamento e gli analoghi organi degli enti locali, il governo, la rete diplomatica, e alcuni organi economici. Esiste anche la classificazione Cofog di terzo livello, ove si fa distinzione tra “organi esecutivi e legislativi”, “attività finanziarie e fiscali” e “affari esteri”, ma i dati non sono disponibili. La categoria non include i costi dei ministeri che svolgono altre funzioni Cofog, ma solo quelli relativi ai Servizi Generali, quindi non include ad esempio lo sti¬pendio del Ministro dell’Ambiente. Si includono inoltre i ministeri economici e gli uffici che gestiscono il debito pubblico (ma non la spesa per interessi). Infine è incluso il costo del Ministero degli Esteri e della rete diplomatica. Non si tratta di una classificazione esaustiva: se in una ASL ci sono troppi dirigenti per motivi politici, questo costo della politica’ va a gonfiare la spesa sanitaria, ma non i costi della politica che stiamo considerando; lo stesso vale per le spese per i Consigli di Amministrazione delle società controllate e partecipate…”

(4) C.SALVI-M.VILLONE,Il costo della democrazia, Milano-Mondadori, 2005; A.GAMERO,  Un tetto alle spese della politica regionale, in  www.lavoceinfo.it , 25 settembre 2012

(5) S.NOTTOLA, op. cit.

(6) Il tema peraltro sembra riguardare anche il versante europeo come risulta dall’articolo di  V.CONTE, Eurodeputati, un assegno da 1,8 miliardi tra rimborsi, indennità e super stipendi, in La Repubblica, 1° agosto 2103
(7) ovvero nell’ambito del procedimento che si svolge  davanti alle sezioni riunite della Corte dei conti nel quale viene valutato  l’esito della gestione del bilancio dell’anno precedente, che si esprime con una deliberazione trasmessa al Parlamento che successivamente approva, con legge il rendiconto (per i vari documenti pubblicati con riguardo alla parifica 2013 v. www.corteconti.it)

(8) I costi della politica” ,in Argilnews –settembre 2012 (http://www.newsandsociety.net/pdf/201208-argilnews.pdf), nel quale, richiamandosi quanto osservato dal procuratore generale della Corte dei conti in occasione della parifica del rendinconto 2011 (est. Federici) si erano descritti i provvedimenti adottati nel  2011 che  avevano riguardato in particolare la graduale riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori comunali e provinciali, la previsione di un’analisi comparata a livello europeo sui livelli retributivi  dei titolari di cariche rappresentative apicali, restrizioni circa l’utilizzazione dei c.d. voli di stato, dell’utilizzo e tipologia di acquisizione di “auto blu”, di benefits rivolti ad autorità istituzionali cessate dalla carica, di riduzione delle dotazioni di organismi politico-amministrativi e collegiali, nonché delle loro retribuzioni, la  destinazione ad uno specifico fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato gli importi corrispondenti alle riduzioni di spesa che verranno deliberate dalle regioni, con riferimento ai trattamenti economici dei componenti della Giunta e del Consiglio regionali, nonché del presidente, la riduzione dell’entità dei finanziamenti  ai partiti  del 10%, la  interruzione dei cosiddetti rimborsi elettorali nel caso di scioglimento anticipato delle Camere, lo svolgimento delle consultazioni elettorali in unica giornata, ulteriori riduzioni introdotte con il “decreto salva Italia”  quali:  definizione del tetto massimo retributivo annuo dei manager/dirigenti pubblici; divieto di cumulabilità tra retribuzioni; -ulteriore intervento sull’ente provincia, le cui giunte sono state soppresse, permanendo unicamente il presidente ed il consiglio provinciale con particolari modalità di elezione; -riduzione e censimento delle c.d. auto “blu” e “grigie” (le prime riservate ai vertici delle amministrazioni, le seconde quelle di servizio); riduzione dei voli di Stato; -contenimento della spesa per il personale di diretta collaborazione delle autorità politiche; - soppressione e accorpamento di enti ed organismi;- riduzione del numero dei componenti delle autorità indipendenti. 

(9) P.MONSURRO’, op. cit. Quanto alle “auto blu” , “…si tratta di una spesa pari a 1,1 miliardi nel 2011... Oltre la metà di questa spesa, circa 600 milioni, è per le auto blu, per via soprattutto del maggior costo del personale dovuto alla pre¬senza dell’autista. Il Formez cura un monitoraggio dei costi delle auto blu e del parco macchine di auto a minore cilindrata e senza autista (“auto grigie”), da cui si evince che in Italia (dati 2012) ci sono circa 7.000 auto blu e 52.000 auto grigie, per un totale di poco più di 59.000 mezzi, esclusi i mezzi delle forze di polizia, le targhe speciali, e i circa 100 mezzi del Parlamento, del Quirinale e della Corte Costituzionale. Il personale dedicato è di circa 19.000 persone, di cui oltre 10.000 autisti, per un costo totale di 800 milioni (dato 2011), di gran lunga la componente più importante del costo complessivo. Questa spesa riguarda soltanto il personale civile, e non include quello dei ministeri della Difesa, dell’Interno, della Giustizia e delle Finanze…”

(10) P.MONSURRO’, op. cit. “…Nel luglio 2011 il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, ricevette l’incarico di svolgere un’indagine comparativa sui trattamenti economici dei titolari di incarichi pubblici negli Stati membri dell’Unione europea. Sebbene l’attività della Commissione sia stata un fallimento a causa dell’indisponibilità di dati comparabili, nel corso del 2012 alcune misure per ridurre il numero dei politici locali, i finanziamenti ai partiti e i costi delle auto blu sono state prese…”

(11)P. MONSURRO’, op. cit.

(12) S.NOTTOLA, op.cit. (est. Federici)
  
(13) S.NOTTOLA, op. cit. (rel. Federici) riferisce anche  che “…nel corso della passata legislatura la 1^ Commissione della Camera dei deputati aveva esaminato una serie di proposte di legge di iniziativa parlamentare in tema di disciplina dei partiti politici, in attuazione dell’art. 49 della Costituzione. Nella seduta del 9 maggio 2012 la Commissione aveva adottato un testo unificato posto a base per il seguito della discussione. Esso individuava la natura giuridica dei partiti, definiti “libere associazioni di cittadini” (art. 2), stabiliva alcuni principi fondamentali cui si dovevano conformare i loro statuti (art. 3), individuava regole per lo svolgimento (facoltativo) di elezioni primarie per la selezione dei candidati alle competizioni elettorali (art. 4), disciplinava la cessazione (giuridica) del partito (art. 5). Nel corso della discussione approvativa era stato introdotto l’obbligo di trasmissione dello statuto alla Commissione di controllo dei bilanci dei partiti istituita con la legge 96/2012, la quale, verificata la conformità dello statuto ai principi di legge, avrebbe iscritto il partito in un apposito registro, requisito necessario per accedere ai contributi pubblici. Nel dicembre 2012 la Commissione ha interrotto l’esame del provvedimento in quanto la maggioranza dei gruppi aveva constatato che non sussistevano le condizioni per proseguire nell’esame del provvedimento. L’iniziativa, in verità, si sarebbe raccordata con analoga riflessione postasi in ambito europeo, ove le grandi famiglie politiche sono venute definendosi in massima parte attraverso processi di incorporazione delle rappresentanze politiche nazionali nei maggiori gruppi politici presenti nel Parlamento europeo. L’art. 191 del Trattato costitutivo afferma, infatti, come essi costituiscano “un importante fattore per l’integrazione in seno all’Unione. Essi contribuiscono a formare una coscienza europea e ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione”. Prendendo lo spunto da una decisione della Corte dei conti europea, che si era espressa sulla illegittimità dei finanziamenti corrisposti ai gruppi parlamentari del Parlamento europeo,  al fine di favorire la sopravvivenza di tali formazioni politiche, con il Trattato di Nizza si è stabilito che, ad integrazione dell’art. 191 del Trattato costitutivo, “il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all’art. 251, determina lo statuto dei partiti politici a livello europeo ed in particolare le loro fonti di finanziamento”, così introducendo una stretta connessione tra finanziamento e definizione dello statuto giuridico di tali organizzazioni..”..

(14) S.NOTTOLA, op. cit. (rel. Federici)

(15) S.RIZZO-E.MENICUCCI, Batman & co., ed. Corriere della sera, settembre 2012 

(16) S.NOTTOLA, op. cit. (est. Federici)

(17) S.NOTTOLA, op. cit. (est. Federici)

(18) P.MONSURRO’, op. cit.. Per regioni, province e comuni  “… complessivamente le spese sono state di 1,6 miliardi di euro nel 2011, 600 milioni per le regioni, 110 per le province e 900 per i comuni. L’indagine ha portato alla luce notevoli differenze territoriali. Ad esempio, la Calabria, con 2 milioni di abitanti, spende circa il doppio della Toscana, che di abitanti ne ha 3,7 milioni: la spesa calabrese è 50,1 milioni di euro, quella toscana 25,5. In linea di massi¬ma le spese al Sud sono maggiori che al Nord, e sarebbe utile avere i dati pubblici per fare confronti accurati. I presidenti di regioni e province, i sindaci e i consiglieri regionali, provinciali e comuna¬li sono circa 125.000, secondo i dati della Commissione Giovannini, senza considerare gli assessori. Gran parte di queste cariche sono legate ai comuni, che sono circa 8.100 in tutta Italia, a fronte di 110 province e 20 regioni. Va notato che questi costi sono solo per le cariche elettive e non rappresentano tutti i costi amministrativi …Abolire le province non farebbe ridurre le spese per la politica di molto, essendo la spe¬sa per le cariche elettive pari a 110 milioni di euro. Però questo non è l’unico risparmio possibile: dei costi amministrativi, 4 miliardi, 2 sono dovuti al personale, e l’elimina¬zione delle province farebbe risparmiare i circa 2 miliardi residui. Non è detto che questo risparmio sia incluso nella categoria Cofog 1.1 discussa in precedenza. Verosimilmente dall’abolizione delle province si avrebbe un abbassamento delle altre spese, una volta assorbito il personale in eccesso. La spesa totale, circa 12 miliardi nel 2011, però include anche spese per lo sviluppo, il turismo, i trasporti, e quindi il rispar¬mio complessivo sarebbe inferiore…”

(19) F:MERLO, Le province non muoiono mai, in La Repubblica, 4 luglio 2013; F.AMABILE, Niente taglio alle province.La Consulta boccia i decreti, in La Stampa, 4 luglio 2013

(20) Corte cost., sent. 220/2013, in ww.consultaonline.it  “…Al riguardo, è necessario ricostruire preliminarmente l’evoluzione della disciplina in materia. Con l’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011 – oggetto delle impugnative proposte con i ricorsi nn. 18, 24, 29, 32, 38, 44, 46, 47 e 50 del 2012 – il legislatore ha, tra l’altro, modificato la normativa in tema di funzioni delle Province (limitandole al solo indirizzo e coordinamento delle attività dei Comuni) e in tema di organi delle stesse (eliminando la Giunta, prevedendo che il Consiglio sia composto da non più di dieci membri eletti dagli organi elettivi dei Comuni e disponendo che il Presidente della Provincia sia eletto dal Consiglio provinciale). Con l’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012 – oggetto delle impugnative proposte con i ricorsi nn. 133, 145, 151, 153, 154, 159, 160, 161 e 169 del 2012, in qualche caso congiuntamente all’art. 18 – il legislatore ha disposto il cosiddetto riordino delle Province, ha nuovamente modificato la normativa in tema di funzioni delle Province (ripristinandone un nucleo essenziale) ed ha tenuto ferma la disciplina sugli organi delle stesse, introdotta dall’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011. L’art. 18 del d.l. n. 95 del 2012, poi, prevede la soppressione delle Province di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria, disponendo la contestuale istituzione delle relative Città metropolitane a partire dal 1° gennaio 2014. Lo stesso art. 18 disciplina, inoltre, gli organi e le funzioni delle Città metropolitane. Con la delibera del Consiglio dei ministri 20 luglio 2012 sono stati dettati i criteri per il riordino delle Province a norma dell’art. 17, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012. Il riordino delle Province nelle Regioni a statuto ordinario, ai sensi dell’art. 17, commi 3 e 4, del d.l. n. 95 del 2012, è stato disposto dal decreto-legge 5 novembre 2012, n. 188 (Disposizioni urgenti in materia di Province e Città metropolitane), che però non è stato convertito in legge. Il predetto decreto recava anche modifiche all’art. 18 del d.l. n. 95 del 2012. Da ultimo, l’art. 1, comma 115, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge di stabilità 2013) ha sospeso per un anno l’attuazione delle norme sopra indicate. In particolare, è stata disposta: la sospensione, fino al 31 dicembre 2013, dell’applicazione delle disposizioni di cui ai commi 18 e 19 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011; la sostituzione, al citato art. 23, comma 16, delle parole «31 dicembre 2012» con le seguenti «31 dicembre 2013»; la sostituzione, all’art. 17, comma 4, del d.l. n. 95 del 2012, delle parole «entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto» con le seguenti «entro il 31 dicembre 2013»; la sostituzione, all’art. 17, comma 10, del d.l. n. 95 del 2012, delle parole «all’esito della procedura di riordino» con le seguenti «in attesa del riordino, in via transitoria»; la sospensione, fino al 31 dicembre 2013, dell’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 18 del d.l. n. 95 del 2012. Si è previsto inoltre che «Nei casi in cui in una data compresa tra il 5 novembre 2012 e il 31 dicembre 2013 si verifichino la scadenza naturale del mandato degli organi delle province, oppure la scadenza dell’incarico di Commissario straordinario delle province nominato ai sensi delle vigenti disposizioni di cui al testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, o in altri casi di cessazione anticipata del mandato degli organi provinciali ai sensi della legislazione vigente, è nominato un commissario straordinario, ai sensi dell’articolo 141 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000 per la provvisoria gestione dell’ente fino al 31 dicembre 2013». Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, si deve osservare che la questione di legittimità costituzionale promossa per violazione dell’art. 77 Cost. nei confronti dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20 e 20-bis, del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, e degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, precede logicamente le altre e deve essere pertanto esaminata per prima. In via preliminare, deve rilevarsi che il parametro dell’art. 77 Cost., pur essendo indicato negli atti introduttivi dei giudizi, non sempre è espressamente individuato nelle relative delibere delle Giunte regionali. Quanto ai ricorsi che hanno ad oggetto l’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, il citato parametro è evocato dalle Regioni Piemonte, Molise, Lazio e dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, ma non risulta indicato nelle delibere delle Giunte regionali del Molise e del Friuli-Venezia Giulia. Quanto al secondo blocco di impugnative, aventi ad oggetto gli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, il parametro costituzionale di cui all’art. 77 Cost. è evocato in tutti i ricorsi – tranne che in quello della Regione autonoma Sardegna – con riferimento sia all’art. 17 sia all’art. 18 del d.l. n. 95 del 2012. Lo stesso parametro non è però indicato nella delibera della Giunta regionale del Molise. Al riguardo, questa Corte – anche sulla base di quanto prescritto dall’art. 32, secondo comma, della legge n. 87 del 1953, secondo cui deve essere oggetto della previa deliberazione della Giunta regionale la «questione di legittimità costituzionale» e non le sole disposizioni da impugnare – ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso nel caso in cui non vi sia corrispondenza tra i parametri ivi indicati e quelli per i quali la Giunta regionale ne ha deliberato la proposizione (ex plurimis, sentenze n. 20 del 2013, n. 226 del 2012, n. 227 e n. 7 del 2011). Né può valere l’inserimento, nella delibera della Giunta regionale, di una formula che rimetta al difensore incaricato il compito di individuare i parametri asseritamente violati (come avvenuto nel ricorso della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia). Deve pertanto essere esclusa l’ammissibilità delle censure prospettate, in riferimento all’art. 77 Cost., dalla Regione Molise in entrambi i ricorsi promossi (reg. ricc. n. 32 e n. 133 del 2012) e dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia nel ricorso avverso l’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011 (reg. ric. n. 50 del 2012). Da quanto detto consegue che le residue questioni prospettate in riferimento all’art. 77 Cost. sono quelle promosse: dalle Regioni Piemonte e Lazio avverso l’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011 e dalle Regioni Lazio, Veneto, Campania, Lombardia, Piemonte e Calabria, e dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia avverso gli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012. L’Avvocatura generale dello Stato ha sollevato eccezione di inammissibilità di tutte le censure riguardanti l’asserita violazione dell’art. 77 Cost., in quanto quest’ultimo non sarebbe parametro attinente al riparto delle competenze tra Stato e Regioni. L’eccezione non può essere accolta. Questa Corte ammette, con giurisprudenza costante, che «le Regioni possono evocare parametri di legittimità diversi rispetto a quelli che sovrintendono al riparto di attribuzioni solo se la lamentata violazione determini una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite o ridondi sul riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni» (sentenza n. 33 del 2011; in senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 46, n. 20 e n. 8 del 2013; n. 311, n. 298, n. 200, n. 199, n. 198, n. 187, n. 178, n. 151, n. 80 e n. 22 del 2012). Se dunque il parametro evocato non attiene direttamente al riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, è necessario, ai fini dell’ammissibilità, che le norme censurate determinino, nella prospettazione della parte ricorrente, una violazione «potenzialmente idonea a determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni» (sentenza n. 22 del 2012, ma, ancora prima, sentenze n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003). Ciò ovviamente non equivale a ritenere che la censura basata su parametri non attinenti al riparto di competenze sia ammissibile solo se fondata rispetto ad una norma contenuta nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione. La questione infatti, all’esito di uno scrutinio di merito, potrebbe risultare non fondata rispetto ai parametri competenziali, ma essere ritenuta preliminarmente ammissibile proprio per la sua potenziale incidenza su questi ultimi. Solo se dalla stessa prospettazione del ricorso emerge l’estraneità della questione rispetto agli ambiti di competenza regionale – indipendentemente da ogni valutazione sulla fondatezza delle censure – la questione deve essere dichiarata inammissibile (sentenza n. 8 del 2013). La possibile ridondanza deve essere valutata non solo con riferimento alle competenze proprie delle Regioni ricorrenti (uniche legittimate ad esperire ricorsi in via di azione davanti a questa Corte), ma anche con riguardo alle attribuzioni degli enti locali, quando sia lamentata dalle Regioni una potenziale lesione delle sfere di competenza degli stessi enti locali (sentenza n. 199 del 2012). Nei casi oggetto dei presenti giudizi, risulta evidente che le norme censurate incidono notevolmente sulle attribuzioni delle Province, sui modi di elezione degli amministratori, sulla composizione degli organi di governo e sui rapporti dei predetti enti con i Comuni e con le stesse Regioni. Si tratta di una riforma complessiva di una parte del sistema delle autonomie locali, destinata a ripercuotersi sull’intero assetto degli enti esponenziali delle comunità territoriali, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione. Questa Corte deve quindi valutare la compatibilità dello strumento normativo del decreto-legge, quale delineato e disciplinato dall’art. 77 Cost., con le norme costituzionali (in specie, ai fini del presente giudizio, con gli artt. 117, secondo comma, lettera p, e 133, primo comma) che prescrivono modalità e procedure per incidere, in senso modificativo, sia sull’ordinamento delle autonomie locali, sia sulla conformazione territoriale dei singoli enti, considerati dall’art. 114, primo e secondo comma, Cost., insieme allo Stato e alle Regioni, elementi costitutivi della Repubblica, «con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione».  Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20 del d.l. n. 201 del 2011, e degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, promosse dalle ricorrenti per violazione dell’art. 77 Cost., sono fondate nei termini di seguito specificati.  Si deve osservare innanzitutto che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la disciplina dei seguenti ambiti: «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane». La citata norma costituzionale indica le componenti essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti locali, per loro natura disciplinate da leggi destinate a durare nel tempo e rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali di lungo periodo, secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli regionali. È appena il caso di rilevare che si tratta di norme ordinamentali, che non possono essere interamente condizionate dalla contingenza, sino al punto da costringere il dibattito parlamentare sulle stesse nei ristretti limiti tracciati dal secondo e terzo comma dell’art. 77 Cost., concepiti dal legislatore costituente per interventi specifici e puntuali, resi necessari e improcrastinabili dall’insorgere di «casi straordinari di necessità e d’urgenza». Da quanto detto si ricava una prima conseguenza sul piano della legittimità costituzionale: ben potrebbe essere adottata la decretazione di urgenza per incidere su singole funzioni degli enti locali, su singoli aspetti della legislazione elettorale o su specifici profili della struttura e composizione degli organi di governo, secondo valutazioni di opportunità politica del Governo sottoposte al vaglio successivo del Parlamento. Si ricava altresì, in senso contrario, che la trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale, trattandosi di una trasformazione radicale dell’intero sistema, su cui da tempo è aperto un ampio dibattito nelle sedi politiche e dottrinali, e che certo non nasce, nella sua interezza e complessità, da un «caso straordinario di necessità e d’urgenza». I decreti-legge traggono la loro legittimazione generale da casi straordinari e sono destinati ad operare immediatamente, allo scopo di dare risposte normative rapide a situazioni bisognose di essere regolate in modo adatto a fronteggiare le sopravvenute e urgenti necessità. Per questo motivo, il legislatore ordinario, con una norma di portata generale, ha previsto che il decreto-legge debba contenere «misure di immediata applicazione» (art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 «Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri»). La norma citata, pur non avendo, sul piano formale, rango costituzionale, esprime ed esplicita ciò che deve ritenersi intrinseco alla natura stessa del decreto-legge (sentenza n. 22 del 2012), che entrerebbe in contraddizione con le sue stesse premesse, se contenesse disposizioni destinate ad avere effetti pratici differiti nel tempo, in quanto recanti, come nel caso di specie, discipline mirate alla costruzione di nuove strutture istituzionali, senza peraltro che i perseguiti risparmi di spesa siano, allo stato, concretamente valutabili né quantificabili, seppur in via approssimativa. Del resto, lo stesso legislatore ha implicitamente confermato la contraddizione sopra rilevata quando, con l’art. 1, comma 115, della legge n. 228 del 2012, ha sospeso per un anno – fino al 31 dicembre 2013 – l’efficacia delle norme del d.l. n. 201 del 2011, con la seguente formula: «Al fine di consentire la riforma organica della rappresentanza locale ed al fine di garantire il conseguimento dei risparmi previsti dal decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, nonché quelli derivanti dal processo di riorganizzazione dell’Amministrazione periferica dello Stato, fino al 31 dicembre 2013 è sospesa l’applicazione delle disposizioni di cui ai commi 18 e 19 dell’art. 23 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214». Dalla disposizione sopra riportata non risulta chiaro se l’urgenza del provvedere – anche e soprattutto in relazione alla finalità di risparmio, esplicitamente posta a base del decreto-legge, come pure del rinvio – sia meglio soddisfatta dall’immediata applicazione delle norme dello stesso decreto oppure, al contrario, dal differimento nel tempo della loro efficacia operativa. Tale ambiguità conferma la palese inadeguatezza dello strumento del decreto-legge a realizzare una riforma organica e di sistema, che non solo trova le sue motivazioni in esigenze manifestatesi da non breve periodo, ma richiede processi attuativi necessariamente protratti nel tempo, tali da poter rendere indispensabili sospensioni di efficacia, rinvii e sistematizzazioni progressive, che mal si conciliano con l’immediatezza di effetti connaturata al decreto-legge, secondo il disegno costituzionale. Le considerazioni che precedono non entrano nel merito delle scelte compiute dal legislatore e non portano alla conclusione che sull’ordinamento degli enti locali si possa intervenire solo con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda sopprimere uno degli enti previsti dall’art. 114 Cost., o comunque si voglia togliere allo stesso la garanzia costituzionale – ma, più limitatamente, che non sia utilizzabile un atto normativo, come il decreto-legge, per introdurre nuovi assetti ordinamentali che superino i limiti di misure meramente organizzative. Si deve ancora osservare che la modificazione delle singole circoscrizioni provinciali richiede, a norma dell’art. 133, primo comma, Cost., l’iniziativa dei Comuni interessati – che deve necessariamente precedere l’iniziativa legislativa in senso stretto – ed il parere, non vincolante, della Regione. Sin dal dibattito in Assemblea costituente è emersa l’esigenza che l’iniziativa di modificare le circoscrizioni provinciali – con introduzione di nuovi enti, soppressione di quelli esistenti o semplice ridefinizione dei confini dei rispettivi territori – fosse il frutto di iniziative nascenti dalle popolazioni interessate, tramite i loro più immediati enti esponenziali, i Comuni, non il portato di decisioni politiche imposte dall’alto. Emerge dalle precedenti considerazioni che esiste una incompatibilità logica e giuridica – che va al di là dello specifico oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità – tra il decreto-legge, che presuppone che si verifichino casi straordinari di necessità e urgenza, e la necessaria iniziativa dei Comuni, che certamente non può identificarsi con le suddette situazioni di fatto, se non altro perché l’iniziativa non può che essere frutto di una maturazione e di una concertazione tra enti non suscettibile di assumere la veste della straordinarietà, ma piuttosto quella dell’esercizio ordinario di una facoltà prevista dalla Costituzione, in relazione a bisogni e interessi già manifestatisi nelle popolazioni locali. Questa Corte ha ammesso che l’istituzione di una nuova Provincia possa essere effettuata mediante lo strumento della delega legislativa, purché «gli adempimenti procedurali destinati a “rinforzare” il procedimento (e consistenti nell’iniziativa dei Comuni e nel parere della Regione) possano intervenire, oltre che in relazione alla fase di formazione della legge di delegazione, anche successivamente alla stessa, con riferimento alla fase di formazione della legge delegata» (sentenza n. 347 del 1994). In sostanza, secondo la pronuncia citata, l’iniziativa dei Comuni ed il parere della Regione si pongono, in caso di delega legislativa, come presupposti necessari perché possa essere emanato da parte del Governo il decreto di adempimento della delega. La stessa inversione cronologica non è possibile nel caso di un decreto-legge, giacché, a norma dell’art. 77, secondo comma, Cost., il Governo deve presentare alle Camere «il giorno stesso» dell’emanazione il disegno di legge di conversione. Non vi è spazio quindi perché si possa inserire l’iniziativa dei Comuni. Né quest’ultima potrebbe intervenire nel corso dell’iter parlamentare di conversione; non si tratterebbe più di una iniziativa, ma di un parere, mentre la norma costituzionale ben distingue il ruolo dei Comuni e della Regione nel prescritto procedimento “rinforzato”. Questa Corte ha riaffermato implicitamente l’indefettibilità del procedimento previsto dall’art. 133, primo comma, Cost., riconoscendo ad una norma dello statuto speciale della Regione Sardegna, in quanto avente rango costituzionale, «capacità derogatoria rispetto alla generale disciplina in tema di istituzione di nuove province contenuta nell’art. 133, primo comma, della Costituzione» (sentenza n. 230 del 2001). … occorre ribadire che a fortiori si deve ritenere non utilizzabile lo strumento del decreto-legge quando si intende procedere ad un riordino circoscrizionale globale, giacché all’incompatibilità dell’atto normativo urgente con la prescritta iniziativa dei Comuni si aggiunge la natura di riforma ordinamentale delle disposizioni censurate, che introducono una disciplina a carattere generale dei criteri che devono presiedere alla formazione delle Province. Per quest’ultimo profilo valgono le considerazioni già sviluppate nel paragrafo 12.1. Parimenti illegittimo deve essere dichiarato il comma 20-bis dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, le cui censure meritano autonoma trattazione. Il citato comma 20-bis è impugnato nella parte in cui obbliga le Regioni speciali ad adeguare i propri ordinamenti alle disposizioni di cui ai commi da 14 a 20, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del d.l. n. 201 del 2011. Siffatta norma è censurata, congiuntamente ai commi da 14 a 20, dalle Regioni Piemonte e Molise, e dalle Regioni autonome Sardegna e Friuli-Venezia Giulia. Quanto all’impugnativa promossa dalle Regioni Piemonte e Molise, le relative questioni risultano all’evidenza inammissibili, stante l’assoluta carenza di interesse delle ricorrenti ad impugnare una norma non applicabile nei loro confronti. Per contro, si è già visto che la violazione dell’art. 77 Cost. è stata prospettata soltanto dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e che la relativa questione deve essere dichiarata inammissibile in quanto non menzionata nella delibera della Giunta regionale. Residuano, pertanto, avverso il comma 20-bis, le sole questioni promosse dalla Regione autonoma Sardegna in riferimento ai parametri statutari. Nondimeno, l’illegittimità costituzionale dei commi da 14 a 20 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011 non può che comportare, in via consequenziale, l’illegittimità anche del comma 20-bis, che pone un obbligo di adeguamento degli ordinamenti delle Regioni speciali a norme incompatibili con la Costituzione. In definitiva, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, dell’art. 23, comma 20-bis, del d.l. n. 201 del 2011…”.
You are here