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Les États-unis contre le terrorisme djhiadiste: une stratégie sans stratégie - Una Strategia senza strategia

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Les États-unis contre le terrorisme djhiadiste: une stratégie sans stratégie
Una Strategia senza strategia
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Ci sono voluti  due anni perché la comunità internazionale desse la dovuta importanza alla crescente minaccia jihadista, al momento ben rappresentata dal nuovo califfato islamico in Iraq. Ma nonostante questa presa di coscienza, quando si tratta di elaborare una strategia comune che possa contenere il terrorismo d’oltremare i paesi occidentali sembrano in affanno. Il 7 settembre scorso il Presidente americano Obama ha annunciato la presentazione di un piano strategico per combattere il terrorismo internazionale e cancellare la presenza dello Stato Islamico, conosciuto anche con l’acronimo ISIL (Stato Islamico della Siria e del Levante); il Presidente francese Hollande ha dichiarato che “la Francia farà la sua parte, come ha sempre fatto”; il Primo Ministro australiano Abbott vuole inviare le forze speciali in qualità di consiglieri militari; anche il governo canadese si è impegnato a lottare contro gli jihadisti mentre la Germania e l’Italia hanno accettato di inviare armi ai peshmerga curdi.
La questione è se queste dichiarazioni siano sufficienti a bloccare l’avanzata dei terroristi. Pur con tutte le buone intenzioni, i governi occidentali (i soli che in questo momento possono mettere insieme una coalizione internazionale) hanno bisogno di tempo, che invece non hanno, per trovare un accordo, cercare il sostegno dell’opinione pubblica e stanziare i fondi per inviare materiale e/o personale militare. I miliziani dell’ISIL non aspettano, ma avanzano rapidamente: i loro attacchi sono respinti solo dai combattenti curdi che lottano per salvare quel che resta del paese, sostituendo le truppe governative di Baghdad ormai alla deriva. I raid aerei degli americani forniscono un valido supporto, ma Obama è stato chiaro: niente truppe sul territorio. Che equivale a dire che il peso dei combattimenti e dei sacrifici che ne conseguono ricadrà interamente sugli iracheni. E questo solleva un’altra questione: per quanto tempo i peshmerga e ciò che resta dell’esercito iracheno resisteranno agli attacchi dell’ISIL senza un intervento militare straniero? 
Il problema del terrorismo islamico non si limita all’Iraq o alla Siria. Anche a voler immaginare una improbabile sconfitta dello Stato Islamico, gli jihadisti hanno dimostrato in passato la grande capacità di riorganizzarsi e rinascere altrove. E’ uno degli aspetti più inquietanti del “villaggio globale”, senza frontiere e senza controlli: ciò che viene cacciato dalla porta rientra dalla finestra. Si è visto in Asia e in Africa. Si vedrà presto anche in Europa. Alla vigilia della partenza delle truppe internazionali dall’Afghanistan i gruppi terroristici si stanno riorganizzando ed espandendo in tutti i paesi dell’Asia centrale; in Africa c’è Boko Haram nella parte occidentale e nelle aree settentrionali, mentre ad est e nella regione centrale imperversano gli islamisti di al-Shabaab, per non parlare di numerosi altri gruppi estremisti radicati in tutto il Maghreb. Ma la sfida più difficile per l’Occidente nel prossimo futuro sarà probabilmente il ritorno in patria delle centinaia di stranieri con passaporto americano o europeo, partiti volontariamente per andare a combattere in Siria o in Iraq abbracciando una ideologia perversa che rifiuta qualunque cosa legata direttamente od indirettamente i valori occidentali. I combattenti venuti dall’Europa, dal Canada o dagli Stati Uniti possono offrire molto alla causa jihadista, a cominciare dalla conoscenza della lingua di origine, dalle capacità tecnologiche e dalla conoscenza dei punti deboli dei paesi di provenienza che un domani prenderanno di mira. Oggi sono già inseriti nell’organizzazione che gli ha affidato dei compiti ad alto livello e si può supporre che presto alcuni di loro faranno parte (se non è già il caso) della leadership, oppure diventeranno il cavallo di Troia per portare la lotta in Occidente.
Una strategia che si basa solo sull’intelligence e sull’ampliamento della campagna aerea non è chiaramente sufficiente. E’ un buon punto di partenza per prevenire atti terroristici e per un supporto ad un’azione militare. Ma da sola l’attività di intelligence non è in grado di fermare l’ondata jihadista. Inoltre, per essere efficace, una coalizione, come quella ipotizzata da Obama nel suo discorso dell’11 settembre scorso, non può non tener conto dei paesi che hanno un ruolo fondamentale nella regione, come Russia e Iran. E anche della Siria di Assad. Sarebbero certamente degli alleati difficili. L’Europa vuole aumentare le sanzioni economiche contro Mosca che mantiene i propri artigli sull’Ucraina e finanzia i separatisti; Teheran si trova ancora in una posizione di “sorvegliato speciale” nonostante le aperture della comunità internazionale; quanto al dittatore siriano, Washington avrebbe ovviamente seri problemi a collaborare con colui che fino ad ora ha cercato di rovesciare sostenendo la ribellione contro Damasco, anche se in tal modo si è favorita la diffusione del terrorismo che adesso minaccia l’Occidente. E’ anche grazie a questa visione frammentata e limitata e ad una conoscenza superficiale degli equilibri e della cultura regionali che adesso ci sono due paesi che si possono definire “collassati” o, se si preferisce, due paesi senza più Stato.
Tanti errori diplomatici, politici e militari. E’ difficile prevedere una lotta senza impegnarsi ad ogni livello: militare, politico, economico e sociale. Non esiste una strategia senza tutti questi elementi e di questo ne beneficeranno le milizie islamiche.


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