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L’Italia ha bisogno delle riforme, l’Europa ancor più

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di Aroldo Barbieri
L’Italia ha bisogno di un processo riformatore. E’ innegabile. Due le riforme istituzionali indifferibili: quella che lasci ad un solo ramo del Parlamento l’approvazione delle leggi e quella che definisca meglio ruolo, prerogative, ma anche limiti nell’azione di una magistratura, che da uno dei tre poteri è divenuta nei fatti potere per eccellenza e casta sulle caste. Ma riforme istituzionali e rilancio economico si intrecciano. L’Europa che ce lo ricorda attraverso il commissario finlandese Katainen, ex primo ministro di quel freddo e marginale Paese, già campione del rigorismo, ha bisogno anch’essa di cambiare assetto. L’Italia –dice Katainen- pensi a fare le riforme prima di chiedere flessibilità nei conti. Ora tra i tanti assurdi di un’Europa che rischia sempre più il naufragio ci sono, tanto per elencare: gli scarsi poteri del Parlamento e quindi dei popoli lì rappresentati e, di conseguenza, lo strapotere dei Governi nazionali e della Commissione. Per non parlare dei voti all’unanimità e della parità più che teorica fra gli stati, che mette sulla stessa riga le grandi nazioni con la Finlandia e la Lettonia, per non far nomi, Con 28 galli a cantare non si fa mai giorno o meglio si fa il giorno che vuole il potente del momento, ieri la Gran Bretagna, oggi la Germania. 
 La Confindustria italiana ha stimato che il processo riformatore, se attuato, darebbe all’Italia molti punti di PIL: 1,9 nei prossimi 5 anni, 4,6 in 10 e ben 20,8 in 50 anni. A parte la difficoltà di quantificare simili previsioni, è indubbio che sbloccare l’Italia cristallizzata nelle sue tante lobby sarebbe utilissimo alla crescita, ma tutto ciò passa innanzi tutto attraverso una rivoluzione liberale, che rimetta al centro il merito, la concorrenza, come rovescio in positivo della pastetta.
Paolo Savona, uno dei nostri migliori economisti, critica il Governo e i famosi 80 Euro in busta paga perché ha definito:” la redistribuzione del reddito e della ricchezza a favore dei meno abbienti una gigantesca riduzione delle tasse, solo perché nelle intenzioni intende attuarla a pressione fiscale immutata, tesi- scrive con più di una ragione-tutta da dimostrare”. Ora in un Paese in cui pubblico è sinonimo di inefficienza, sprechi, profitti illeciti, corruzione, il debito cresce. Nel 2008 era al 104% del PIL, nel 2010 al 120%, oggi al 135%. Sicuramente la crisi tagliando il PIL ha esaltato il debito, ma tant’è: il debito, che ingoia parte significativa della ricchezza prodotta, è il vero problema e spendere 10 miliardi per alleggerire solo una piccola parte dei cittadini (restano fuori: incapienti, lavoratori autonomi, pensionati) non sembra essere una grande mossa sotto il profilo economico. La scossa sui consumi era attesa per giugno, ora è stata rinviata nel medio-lungo termine. Ma ancora una volta (se non si vuole pensare che sia stata solo una mossa politico-elettoralistica) la decisione nasce da un fraintendimento della natura di questa crisi, che investe quasi tutti i Paesi dell’Occidente, con l’eccezione fin qui della Germania (che comunque ora comincia ad avere difficoltà) per l’essersi avvantaggiata dei mali altrui e degli USA, per la loro potenza economico-militare e monetaria. 
La crisi che l’Occidente vive dal 2008 è figlia dello sboom da consumismo e comporta un riassestamento in basso per tutte le economie, in primis per aver consegnato la manifattura ai paesi emergenti, Cina in testa. Inoltre la rivoluzione informatica rende ancor più penosa la vicenda, non solo favorendo la disoccupazione nella classe medio-impiegatizia, ma frenando la ripresa dell’occupazione medesima, che sola può venire dalla reindustrializzazione, dai nuovi mestieri, dall’innovazione di prodotto, migliorando così le nostre ragioni di scambio.
Se l’Italia non si toglie dalle caviglie parte del peso del debito è paragonabile a chi avanza camminando su un fondo melmoso. Si dice che il debito è sostenibile. Sarà pur vero, ma frena la risalita. Sarà pur sostenibile, ma solo perché c’è ancora tanto grasso presso la parte più agiata della popolazione e soprattutto perché il debito italiano è un grande affare internazionale. Si mette sotto accusa l’Euro (che è chiaramente sovra quotato rispetto al dollaro) e si citano i vantaggi di quei Paesi (vedi Polonia e Gran Bretagna) che si avvantaggiano del far parte della UE, ma non pagano le conseguenze della rigidità che comporta la moneta unica senza una vera integrazione economica (un’altra delle incongruenze dell’Europa).  Non  si riflette sul fatto che l’Italia non aveva possibilità di restare fuori dell’Euro proprio per via del debito pubblico. Per anni l’Euro è servito a pagare interessi più bassi, così come sta avvenendo adesso. Ne avremmo dovuto profittare allora per fare le riforme, tagliare la spesa improduttiva, migliorare la ricerca, curare la formazione delle nuove generazioni e non continuare a vivere al di sopra dei propri mezzi.  La benevolenza che gli investitori dimostrano oggi verso il i titoli dell’Italia non dipende dal fatto che l’Italia è migliore rispetto  a quella di ieri, essa investe tutti i Paesi periferici della UE (con i titoli spagnoli che fanno meglio di quelli italiani). Ma ancora per poco. E’ bastato infatti che la Governatrice della FED americana alludesse alla fine del “tapering” e al rialzo dei tassi di interesse nella prossima primavera e il dollaro si è rafforzato. Si dirà “meglio”; visto che l’alto corso della moneta unica penalizza tutta l’area Euro. Non si pensa però che il rialzo dei tassi a livello mondiale farà risalire lo spread fra BUND e BTP, giovando alla Germania, meno all’Italia. D'altronde l’economia italiana è debole: i dati di maggio su fatturato e ordinativi dell’industria stanno a testimoniare che la domanda estera si indebolisce. Visto che l’export è l’unica voce in positivo, pensare che gli 80 Euro siano in grado di sostenere l’economia dall’interno è fanciullesco, a meno che il beneficio non venga generalizzato, sì ma con quali risorse, con quelle di chi sta al di sopra dei 26 mila Euro? Magari attingendo alle pensioni superiori ai 3000 Euro lordi (1800 netti), sbandierandole all’invidia sociale come pensioni “d’oro”? E questo si gabella come difesa della classe media? Sarebbe più giusto definirlo come sacrificio della classe media a vantaggio di quella medio bassa. E poi visto che la cellula della società italiana è la famiglia (vero ammortizzatore sociale) come giustificare gli 80 Euro dati al single che guadagna 24 mila Euro e negarli al padre di famiglia con 3 figli a carico e un reddito superiore? L’economia italiana dovrà ancora dimagrire, purtroppo. Per quanto tempo? Dipende da noi, perché la salvezza verrà non dalla redistribuzione dell’esistente (secondo la logica del contenimento del danno in attesa di tempi migliori), ma solo da una profonda trasformazione dell’economia e della società in termini di competitività, di liberalizzazioni, di guerra alle lobby. Ha detto giustamente De Rita: non sono preoccupato per l’economia, che trova sempre un suo punto di riassetto (in basso in questo caso), ma per la tenuta della società, perché il processo sarà lungo. Tanto più lungo quanto più si penserà di agire come nel passato, quel passato di irresponsabilità, appiattimento, tirare a campare, che ci ha portato dove siamo.
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