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2015: potrebbe essere l’anno di rivincita dell’economia “reale”

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di Aroldo Barbieri
Il crollo del prezzo del petrolio e la forte ripresa negli USA potrebbero fare da traino al resto del mondo ed innescare una svolta nell’economia mondiale nell’anno a venire. Il condizionale è però d’obbligo, non solo per le troppe tensioni geopolitiche, ma perché lo stesso deprezzamento dell’energia, che in altri momenti avrebbe spinto in alto il PIL di molti Paesi, può avere un riflesso negativo in un Occidente (USA, ma non solo, esclusi), piagato dalla deflazione. In particolare il discorso vale per l’Europa, come ha sottolineato il presidente della BCE, Mario Draghi. Una cosa è sicura il 2015 vedrà il disaccoppiamento tra gli andamenti dell’economia “di carta” e quella reale, la prima ora più fragile, perché già eccessivamente all’insù, la seconda finalmente in recupero. Il disaccoppiamento poi quasi sicuramente riguarderà le due sponde dell’Atlantico, con una FED  tentata di raffreddare Wall Street attraverso l’aumento dei tassi di interesse e l’Europa, in particolare quella dell’euro, che ha bisogno tassi bassi e iniezioni di liquidità per cercare di tonificare un’economia reale che ancora stenta a decollare. 
Passando ad esaminare la tendenza per aree (la globalizzazione si sta realizzando “a zolle” di nazioni) gli ultimi dati dell’economia a stelle e strisce, con un PIL che cresce in ragione del 3,5-4%, disoccupazione in calo, costo dell’energia in forte discesa, appare la più forte e può sicuramente far da traino al resto dell’economia mondiale. Gli scettici mettono in rilievo l’impoverimento dell’americano medio, ma lo schiacciamento in basso della classe media e medio-bassa è fenomeno di tutto l’Occidente ed è forse l’esito più caratteristico della trasformazione economica dettata dalla globalizzazione e dall’affermarsi di nuovi saperi, che al contrario spinge in alto rapidamente chi ha nuove idee spendibili e nuove competenze. Gli USA sono sicuramente usciti dalla crisi che la fuga in avanti dell’economia di carta su quella reale aveva causato. Ne sono usciti adottando una politica monetaria espansiva, per evitare che il giocattolo si rompesse, ma nel contempo spingendo gli investimenti nell’economia reale, in particolare nell’innovazione, che è la strada privilegiata per l’Occidente per recuperare competitività. L’unico interrogativo riguarda la tenuta degli investimenti (in gran parte speculativi) operati sulla nuova gallina dalle uova d’oro, ovvero l’energia ottenuta dal fracking, quello shale oil che ha ridato agli Usa la quasi indipendenza energetica. Solo Exxon tra le grandi compagnie ha investito nella nuova frontiera, per il resto sul fracking si sono buttati a capo fitto risorse, prese a prestito dal sistema finanziario, da parte di investitori non sempre tanto solidi da poter resistere se, come dice di volere l’Arabia saudita, il prezzo del petrolio dovesse restare sotto i 60 dollari/barile, dati gli alti costi del nuovo sistema estrattivo.    
L’altro “grande”, la Cina, ha dovuto ridurre da poco il costo del denaro (tra 25 a 40 punti base) per tentare di mantenere la crescita del PIL al sopra del 7% annuo, un livello considerato dai governanti di Pechino indispensabile ad assicurare insieme alla crescita complessiva del Paese la pace sociale e ridurre la frattura tra città e campagna. I problemi per la Cina 2015 sono gli stessi del 2014, con un in più: i prezzi delle case scendono e le sofferenze bancarie aumentano. Tutto scontato quando si passa da una crescita vicina al 10%, ma fortemente pompata, ad una più modesta del 7%. Continua poi la gara tutta interna tra sistema di credito ufficiale e lo shadow banking, che rende meno gestibile la politica creditizia cinese, difficilmente però il 2015 vedrà grosse novità a causa di Pechino. 
Ma la migliore dimostrazione dei limiti della politica monetaria viene da Tokio: il Giappone è tornato in recessione nonostante la Abenomics, ovvero la scelta di causare inflazione per via monetaria, immettendo molta liquidità nel sistema. Se il cavallo non beve tanta acqua non serve.  La vicenda giapponese è davvero istruttiva anche e sopra tutto per l’Europa e per l’Italia. L’Occidente “vecchio” con forte debito pubblico, welfare pesante (soprattutto pensionistico), può uscire dalla sue difficoltà solo se fa riforme che siano in grado di rivitalizzare un tessuto sociale statico. E in questo il Giappone è più conservatore dell’Europa e della stessa Italia. Fare riforme significa due cose principalmente: dar vita ad un welfare meno costoso ma altrettanto se non più efficiente, mettere in gioco forze fresche e dinamiche. Detto in poche parole: non basta evitare di inseguire la spesa con le tasse, ma bisogna riqualificarla, renderla maggiormente produttiva. Non solo, è indispensabile spingere sull’innovazione e con essa sui giovani, che sono per motivi di età più portati ad innovare.   
E veniamo all’Europa. Intanto bisognerebbe parlare dell’Europa del nord e di quella del sud, con la Francia a cavallo tra le due realtà e di Europa con la moneta comune e di quella che non si è assunta tale camicia di forza. Europa del nord significa Germania e Olanda, la due culle del protestantesimo, che hanno come compagni di strada tre Paesi: Slovacchia, Finlandia ed Estonia, non molto significativi, ma che hanno in comune l’aver fatto drastiche e dolorose riforme sulla propria pelle e quindi poco inclini ad essere teneri con chi si assolve troppo facilmente. La Germania, Paese egemone dell’Europa, ma che non vuole pagare lo scotto che comporta essere il primo, è sostenitrice della massima cautela nei riguardi dell’inflazione, considerata nel suo aspetto negativo, ovvero di rappresentare una ricchezza fittizia. I tedeschi sono per l’economia reale, per la ricchezza solida. Ma in questo momento la loro posizione è sbagliata. L’inflazione infatti ha anche un aspetto positivo, quando è febbre da crescita, quando è segno di cambiamento. E la vecchia Europa ha gran bisogno di cambiare. Se l’inflazione agevola il debitore e mangia i capitali non impiegati, la deflazione favorisce il creditore (e la Germania è il principale creditore) ma soprattutto incide in negativo sui consumi. A che pro comprare oggi, se domani quel bene costerà di meno? Moneta forte e avversione all’inflazione sono i punti di forza tedeschi in un’Europa, vecchia, conservatrice, scarsamente innovativa, che avrebbe bisogno in questo momento di una moneta debole sul dollaro e della febbre, anche se non da cavallo. Invece quel che si fa in tutta Europa e con lo stesso job acts da noi è ridurre uno solo dei fattori che favoriscono la competitività: il costo del lavoro. Ma se il monte salari diminuisce con esso cala anche la capacità di spesa e quindi i consumi non decollano.  
Su questa situazione di quasi paralisi dettata dalla società europea, ma ingessata dalla moneta unica (come dimostra il fatto che i Paesi fuori Euro, Polonia in testa, crescono meglio degli altri), la BCE cerca di far quel che può. 

BCE: i limiti dell’azione di Draghi, il Qe
 
I limiti dell’azione di Mario Draghi, che sta iniettando liquidità nel sistema, non sono di poco conto. Lo fa fornendo alle banche moneta in cambio di bond di prima qualità (covered bond) vincolata ad impieghi nel sistema produttivo e di ABS, ovvero di obbligazioni che hanno come sottostante obbligazioni corporate, e ha varato l’acquisto di titoli pubblici, per riportare il bilancio della BCE a 3000 mld di Euro, ovvero ai livelli del 2012. Il principale limite sta proprio nel fatto che l’economia reale si sta riprendendo la rivincita su quella di carta: immettere liquidità in un sistema pieno di squilibri che la moneta unica si incarica di esaltare, non è particolarmente efficace, come indica anche il fatto che le banche europee si sono limitate a chiedere liquidità attraverso lo strumento dei Tltro. Se la politiuca monetaria potesse fare tutto, l’Abenomics avrebbe avuto ben maggiore successo. 
Quanto all’acquisto di titoli pubblici, il famoso Qe made in UE, per non stravolgere il rapporto tra gli Stati, è stato realizzato in proporzione alla partecipazione dei medesimi al capitale dell BCE. Quindi titoli tedeschi poi francesi, poi italiani. Ma la Germania è quella che ne ha meno bisogno e non a caso la cancelliera Merkel è uscita allo scoperto subito dopo l’annuncio di Draghi di voler procedere a maggioranza, per sottolineare la priorità delle riforme, che dovrebbero fare i paesi mediterranei per rendersi più competitivi e più simili a quelli del nordeuropa. Non solo, il fatto di limitare il rischio legato all’acquisto dei titoli pubblici nominalmente al 20% dell’ammontare complessivo (superiore ai 1000 miliardi, in ragione di 60 mld al mese) è di fatto pari ad un misero 8%, mentre il resto dell’alea resta a carico delle banche nazionali. Tutto ciò porterà in primis all’indebolimento ulteriore dell’euro, sentito come una moneta poco comune, sosterrà le borse, porterà qualche sollievo al credito, ma difficilmente otterrà lo scopo dichiarato di far risalire in modo tangibile il tasso di inflazione. Draghi ha promesso che il Qe continerà fino all’ottenimento dell’obiettivo e questo sicuramente è il bazooka che più potrà avere effetto sui mercati, che vivono anche di annunci. 

Il “caso” Italia

E l’Italia? già l’Italia immersa nella corruzione, indebitata, poco concorrenziale, ma con grandi risorse assopite e scoraggiate da corruzione, faciloneria, approssimazione, frustrazione decennale del criterio del merito e della concorrenza cosa può fare? Le riforme sicuramente. A cominciare dalla correzione alla Fornero nel senso di un sistema pensionistico più flessibile in uscita, lasciando alle persone con determinati requisiti (ed esempio 40-42 anni di versamenti effettivi) la facoltà di andare prima in pensione accettando un assegno più basso se calcolato sul retributivo, pieno se calcolato sui contributi versati. E questo per favorire il turn over con i giovani. Inoltre, ad inizio anno il Tesoro potrebbe lanciare una mega offerta di acquisto di “BTP Italia”, riservato alla clientela retail, per ridurre la quota di debito in mani estere, che oggi oscilla intorno al 30% del totale. Considerato che gli italiani sono un popolo di risparmiatori e che non hanno molte alternative di impiego praticabili in un momento di tassi di interesse bassissimi, una simile opzione avrebbe il doppio effetto di rendere più sostenibile il debito. Ma la principale “riforma” resta quella di riqualificare la spesa (non ridurla), tagliando quella parassitica (cominciando ad incidere con forza sulle municipalizzate, luogo privilegiato di posti di lavoro senza giustificazione economica e di corruzione diffusa, come attestano anche le recenti vicende di Roma) per riservare le risorse liberate agli investimenti, sia quelli che danno lavoro nell’immediato, sia quelli che portano innovazione per guardare al futuro. E’ questa la sola strada per ridurre la pressione fiscale complessiva senza scommesse rischiose e scarsamente praticabili. E già la pressione fiscale: l’Italia sta in ambito OCSE quasi al vertice. Sicuramente al vertice se si considera il ritorno in termini di servizi resi. Ma siamo ben al di sopra della media per l’IRPEF e tasse sulla casa: quindi quelle che colpiscono la classe media e medio alta, al di sotto per quelle che pagano le società sui loro profitti e soprattutto per l’IVA, ampiamente evasa: quindi le tasse che pagano grandi e piccole società e padroncini vari, al di là delle lamentazioni degli stessi. Per non parlare dell’agricoltura, non ancora sentita come una attività economica a pieno titolo. Se un industriale, un artigiano, un commerciante possiede locali o capannoni al servizio dell’attività, gli immobili “a uso strumentale” gli fanno fatturato ai fini dei coefficienti presuntivi di reddito, ma tutto ciò non tocca l’agricoltura. Il pasticciaccio dell’IMU sui terreni agricoli è davvero la cartina di tornasole. Stabilito a priori che servono 350 milioni di Euro per finanziare gli 80 Euro in busta paga, si toglie l’esenzione IMU ai terreni di pianura, la si lascia (giustamente) a quelli di montagna e per quelli di collina, spesso i più redditizi) in termini di olio e vino e frutta varia, si lascia l’esenzione solo agli imprenditori, coltivatori diretti in testa, un categoria quest’ultima da anni ’50, da riforma Fanfani, per di più composta quasi universalmente da anziani se non vecchi. Cosa fare? Allineare l’attività agricola a tutte le altre attività economiche. Quindi fine delle esenzioni che salvano solo un patrimonio spesso improduttivo. L’agricoltura ha bisogno di braccia  e competenze giovani. 
Comunque finchè l’evasione e il nero saranno così diffusi è chiaro che coloro che sono già conosciuti al fisco saranno sempre più tosati, casa in particolare. La ricchezza degli italiani è scesa proprio per il deprezzarsi del valore degli immobili. Ma questo non sarebbe un guaio se non avesse partorito due conseguenze: lo stop all’edilizia e il diffuso senso di incertezza. 
Se dunque la congiuntura mondiale tornasse a tirare, se il dollaro sui rafforzerà sull’euro e anche noi facessimo la nostra parte, il 2015 potrebbe risultare l’anno della premessa alla svolta. Diversamente la situazione si farà ancora più pesante e non saranno certo gli 80 Euro in busta paga a risollevare i consumi, ma la possibilità di guardare ad un orizzonte meno buio e la sostituzione della speranza alla paura.
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