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La “Comunicazione di Crisi” nelle attività comunicazionali delle forze di polizia

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di Gian Luca Berruti e Stefano Serafini
Su quello della cosiddetta “comunicazione di crisi”, ovverossia quel particolarissimo segmento della comunicazione che nasce da circostanze impreviste e imprevedibili derivanti dall’attività di servizio delle Forze di Polizia, ma che sono in grado di influenzare negativamente la Pubblica Opinione, si sono spesi, compiendo studi interminabili, eminenti studiosi ed esponenti della comunicazione moderna.
L’etimologia della parola “crisi” deriva dal verbo greco krinein (separare, decidere) e tanto basta per comprendere come, già nell’antichità, la “crisi” rappresentasse un punto di svolta, un momento o una fase in cui un processo di qualsiasi genere può andare in una o più direzioni.
La crisi è legata a un evento (dal latino ex venio), imprevisto che infrange gli equilibri di un’entità, esprimendo una minaccia.  
E’ uno sconvolgimento dello status quo e scatena un’emergenza, categoria concettuale che non è il contrario della normalità ma fenomeno che sconvolge la routine del sistema che colpisce e per questo è stressante e molto potente.  
Anche l’illustre ingegnere, economista e sociologo italiano Vilfredo Federico Damaso Pareto (Parigi, 15 luglio 1848 – Céligny, 19 agosto 1923), nell’elaborare la sua teoria, meglio conosciuta come il “Principio di Pareto”, affermò che da un solo 20% di cause deriva l’80% degli effetti.
Ricollegandoci dunque a questo principio, empirico ma difficilmente confutabile perlomeno sui grandi numeri, è di tutta evidenza come la vastità e la complessità dei delicati compiti istituzionali demandati alle Forze di Polizia non possano, prima o poi, generare crisi comunicative; lo insegna la storia e lo afferma anche un principio matematico.
D’altro canto i casi in cui talune azioni condotte da rappresentanti delle Forze dell’Ordine hanno poi generato in merito flussi di notizie non proprio entusiastici ne è piena l’antologia cronistica di tutti i Paesi del mondo ed anche l’Italia, in questo senso, non fa certo eccezione.
La libertà di espressione, cosi come quella di stampa, rappresentano alcuni dei principi-cardine di ogni democrazia, per questo motivo diviene semplicemente utopistico, oltre che antidemocratico, il poter pensare di controllare in qualche modo i flussi mediatici.
Dall’altro lato, però, ogni parte chiamata direttamente in causa da flussi mediatici non proprio positivi per la sua immagine ha come preoccupazione prioritaria quella di doversi confrontare con sempre possibili strumentalizzazioni le quali, a maggior ragione, riescono a trarre ancor più seguito quando la parte chiamata in causa si trincera dietro un no-comment, fornisce più versioni della medesima vicenda o illustra fatti non sorretti dalla realtà.
Com’è possibile, a questo punto, potersi contrapporre a flussi comunicativi negativi e affrontare crisi mediatiche con obiettività e serenità riuscendo, addirittura, a trasformarle come una buona occasione per farsi conoscere?
Secondo gli studiosi di questi fenomeni, definiti dal filosofo e sociologo francese Edgar Morin con il termine di “crisiologia”, è essenziale costituire subito un Crisis Team che analizzi da ogni singolo lato il problema mediatico palesatosi ed appronti, in maniera ponderata ma in lasso di tempo ragionevolmente breve, i dovuti elementi di risposta.
A tal riguardo, però, è bene far subito una premessa: l’apparire senza essere non regge.
Banalizzando il concetto si consideri la situazione di una società privata che ha i propri bilanci in perdita netta, alla luce di ciò farebbe solo harakiri qualora tentasse a tutti i costi di dimostrare che non è così; molto meglio è ammettere l’evidenza facendo però il massimo per far comprendere all’interlocutore che l’azienda stessa si è già dotata delle contromisure più idonee, che per di più, andranno illustrate con dovizia di particolari.
Per quanto riguarda le Istituzioni Pubbliche il discorso non è poi così diverso, anche se presenta ben altri aspetti e particolarità rispetto all’impresa privata dai quali non è possibile, in alcun modo, affrancarsi.
Ogni Forza di Polizia, nell’immaginario collettivo di un Paese democratico, è idealizzata come una parte positiva della propria società, un’istituzione che protegge il cittadino ed alla quale ci si può rivolgere sempre e con la massima fiducia, dunque guai a raccontare i fatti esponendoli con tesi di fantasia destinate, inevitabilmente, ad essere smontate, perché non c’è peggior cosa di scoprire come “cattivo” ciò che si considerava “buono”; il danno d’immagine è incalcolabile e richiede anni, finanche decenni, per essere ammortizzato.
Altro aspetto fondamentale e da tener sempre in considerazione nelle “crisi mediatiche” è l’affidamento ad un unico interlocutore delle risposte da fornire ai media. Un “portavoce” chiaro, diretto, sufficientemente autorevole e sempre disponibile, che conosca perfettamente i processi mediatici ed abbia un contatto diretto con la “fonte generatrice” della notizia, cosicché possa venire a conoscenza di ogni singolo dettaglio della vicenda assumendone così una necessaria padronanza, è condizione necessaria per affrontare un più che probabile incalzamento dei quesiti provenienti  degli Organi d’Informazione.
Per quello che riguarda le Forze di Polizia, inoltre, va soppesato con cura anche un altro aspetto primario, ciò quello di subordinare la propria posizione a quella dell’Autorità Politica che, a vario titolo, può essere coinvolta nella vicenda.
Ogni Forza di Polizia, infatti, dipende da un Ministro, ragion per cui diviene semplicemente impensabile il poter assumere una propria posizione di fronte ai media in risposta ad una “crisi mediatica” prim’ancora che l’abbia fatto l’Autorità Politica, o che la stessa Autorità non abbia fornito chiare indicazioni in merito.
Come abbiamo già brevemente annunciato nei precedenti paragrafi, nella risoluzione positiva delle “crisi mediatiche” è fondamentale essere in possesso di adeguati elementi di risposta che siano in grado di controbilanciare gli effetti di una comunicazione negativa e conoscerli per bene, per poi fornirli ai giornalisti in maniera aperta e cadenzata in ragione di ogni novità eventualmente intervenuta nel contesto critico.
Dall’altro lato della “barricata”, infatti, vi sono dei professionisti (in questo caso dei giornalisti) che hanno assoluta necessità di dover, comunque, fornire un prodotto e di fornirlo in tempi brevi.
Temporeggiare inutilmente alle richieste dei giornalisti, infatti, oltre a spazientirli, costringe i redattori a rivolgersi ad altre fonti che hanno tutto l’interesse a fornire la “loro” versione dei fatti.   
Portando un esempio pratico a questo scritto si può rievocare la vicenda, verificatasi pochi mesi orsono, che ha visto come protagoniste negative alcune motovedette libiche che avevano mitragliato un motopeschereccio italiano in acque internazionali.
Tali motovedette facevano parte del naviglio in dismissione della Guardia di Finanza e furono consegnate al Governo libico in virtù di precisi accordi internazionali.
A bordo di queste vedette, sempre sulla base di questi precedenti accordi internazionali, erano presenti alcuni militari delle Fiamme Gialle che, prima ancora, avevano anche addestrato i militari della Guardia Costiera libica nell’uso di tali imbarcazioni.
Si immagini ora la seguente situazione così come, peraltro, è stata realmente esposta su taluni mezzi d’informazione nazionali:
  • l’Italia fornisce delle proprie imbarcazioni militari alla Libia;
  • i libici sparano con le navi donate dal Governo italiano, magari anche con armi italiane contro pescherecci italiani;
  • a bordo dei pattugliatori condotti dai libici ci sono anche militari di un Corpo di Polizia Italiano;
  • il motopeschereccio italiano era stato inseguito con accanimento per ben 3 ore;
  • i militari libici, proprio perché gli agenti italiani sono lì come osservatori, li considerano come una specie di fardello e li trattano anche con modi sprezzanti.
Alla luce di tali circostanze la cornice interpretativa diviene già nitida e spiegare al comune cittadino il perché ed il percome sia potuta succedere una cosa del genere non è certo cosa agevole, anche se il Comando Generale del Corpo è però riuscito a risolvere in maniera brillante una situazione che si era presentata in un primo momento addirittura imbarazzante, facendo leva su incontrovertibili elementi oggettivi di cui era in possesso e che sono stati forniti alla stampa secondo un preciso ordine.
Sia pur conoscendo nei dettagli quali fossero gli elementi della collaborazione che la Guardia di Finanza italiana aveva fornito alla Guardia Costiera libica, all’indomani del verificarsi della vicenda i responsabili della comunicazione del Corpo convocarono i propri militari presenti sul luogo della sparatoria per farsi spiegare - dalla loro viva voce - quale fosse stata la reale dinamica dei fatti; dinamica che molti Organi di Stampa, evidentemente, non conoscevano e che non si sono nemmeno fatti scrupolo di apprendere impegnati com’erano a raccontare l’episodio in tutti i suoi apparenti paradossi.
Dalla disamina degli accordi internazionali in argomento e dai colloqui effettuati con i militari impegnati nella missione in territorio libico, invece, emerse subito che:
  • alla Marina libica furono fornite solo le imbarcazioni e non certo le armi;
  • i finanzieri italiani operavano al fianco dei militari libici ma, solo ed esclusivamente, in veste di fornitori di supporto tecnico per i motori e i sistemi di bordo presenti sulle imbarcazioni;
  • i militari libici, per ben 3 volte e come previsto dalle normative internazionali, avevano intimato l’alt al motopeschereccio italiano senza ottenere risposta e senza che l’imbarcazione stessa interrompesse la sua manovra di fuga;
  • il motopeschereccio italiano non fu inseguito per 3 ore dai libici, giacché la velocità della motovedetta sviluppava un numero di nodi perlomeno doppi a quelli della predetta imbarcazione civile;
  • i militari libici apprezzavano la collaborazione resa dai finanzieri italiani e facevano di tutto per offrire loro una permanenza ospitale nel loro Paese.
Una volta acquisiti e fissati saldamente tutti gli elementi di risposta che l’Ufficio Stampa del Corpo intendeva fornire alla stampa per compensare l’effetto negativo sortito da corrispondenze giornalistiche raffazzonate, strumentali e alquanto fantasiose, si invitarono alcuni autorevoli giornalisti a venire direttamente presso gli uffici del Comando Generale per esporre e spiegare le dinamiche dei fatti ascoltandoli direttamente dai diretti testimoni.
Per questi giornalisti è stato così possibile comprendere la realtà dei fatti, fornendo così ai cittadini un’informazione autentica, del tutto scevra da polemiche ideologiche, strumentalizzazioni politiche e insussistenti dietrologie.
Alla luce di ciò appare oltremodo evidente che la “crisi mediatica” descritta si sia poi rivelata per la Guardia di Finanza come una favorevole occasione comunicativa, per mezzo della quale ha potuto far meglio comprendere al comune cittadino le finalità e i termini di quella missione nel paese africano, ma non sempre finisce così.
In questi casi è fondamentale comprendere i fatti nella loro più autentica dimensione, decidere e impugnare gli elementi di risposta più idonei - che non nascono dietro falsità ed omissioni bensì da elementi concreti - e raccontare il tutto ad orecchie che si mostrino davvero interessate ad ascoltare diversi punti di vista ed opinioni senza preconcetti. 
In assenza di ciò è senza dubbio meglio tacere attendendo che si plachino le acque, sia pur nella consapevolezza che il silenzio, la non-comunicazione, è di per sé una forma di comunicazione comunque preferibile ad una falsa verità destinata prima poi ad affondare.
Ogni “crisi mediatica”, d’altro canto - sia pur presentando delle analogie con altre verificatesi in precedenza - è sempre diversa dalle altre perché sempre diversi sono i tempi, i luoghi, gli accadimenti, le circostanze ed anche i protagonisti diretti e indiretti.
Sarà, dunque, solo un’approfondita conoscenza della materia “crisiologico-mediatica” a far si che una cattiva comunicazione possa costituire l’occasione per fondare una buona comunicazione; in altre parole arrivare a possedere quell’adeguata base culturale che consenta di fronteggiare  - sempre nel pieno rispetto della verità - ogni attacco, da qualsiasi parte ed in qualunque modo provenga.
Lo scrisse Dante più di 700 anni fa: “Saetta previsa vien più lenta”.
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