Gli Stati Uniti e l’opzione “zero” in Afghanistan: un’alternativa credibile?

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di Cristiana Era
Poco tempo fa Ben Rhodes, vice consigliere per la sicurezza nazionale, menzionava - tra le possibili scelte dell’amministrazione Obama sul numero delle truppe americane del dopo 2014 -  anche l’opzione zero, prontamente riportata “urbi et orbi” dai media internazionali come scelta possibile, anzi probabile. Anche i report sull’incontro tra Karzai e Obama a Washington lo scorso 11 gennaio si sono concentrati prevalentemente sulla questione dei numeri.  Numeri che l’incontro tra i due presidenti non è riuscito a definire in modo chiaro. In realtà, l’”opzione zero” non è mai stata un’opzione, semmai  una delle tante strategie volte a contenere le pressioni interne.
In effetti, le modalità del ritiro delle forze nazionali dal teatro afghano, già da tempo avviata, mostra tutta la stanchezza di una guerra di posizione che ha visto un arretramento dei gruppi di insurgent (in termine tecnico) e il culmine nella morte di Osama bin Laden, ma mai una chiara e decisiva vittoria sul caos, l’illegalità e il terrorismo  che dilaniano l’Afghanistan ormai da più di 30 anni. E come i russi prima della NATO, anche ISAF ammainerà la bandiera, proclamando la sua “mission accomplished”, ma prevedibilmente a voce bassa. Il Paese non è mai effettivamente uscito dalla guerra civile che l’ha dilaniato per decenni. Con l’arrivo della comunità internazionale ha solo avuto un attore in più sulla scena che ha spostato gli equilibri. Temporaneamente. La corruzione e il sistema tribale (il clan e la famiglia dettano le leggi, non la magistratura, anch’essa corrotta ed inefficiente) hanno ostacolato la possibilità di istituire e far radicare nella cultura degli afghani la nozione di Stato, di Nazione e di governo come espressione di  garanzia del rispetto della legalità e dei diritti. Senza di questo, qualunque legge, sia pure la Costituzione, è un pezzo di carta.
Nel mezzo ci sono le forze della Coalizione, in primis quelle americane. Dopo aver raggiunto il picco di 100 mila unità dispiegate sul terreno nel  2011, la decisione dell’amministrazione Obama di ridurre gli effettivi  agli attuali 66 mila militari è stata una prima risposta alle esigenze di politica interna. Il superamento della soglia psicologica delle 2000 vittime non ha mancato di avere ripercussioni sull’opinione pubblica americana. Ad un primo riscontro positivo dell’aumentata forza internazionale in termini di arretramento dei talebani è seguito il periodo di stallo al quale nel 2012 si è aggiunto un preoccupante aumento degli attacchi “green-on-blue”, cioè gli attacchi dei militari afghani contro le truppe ISAF, che ha creato sentimenti di paura e diffidenza tra i membri della coalizione e quelli dell’ANSF (Afghan National Security Forces), rendendo automaticamente più difficile condurre operazioni congiunte.
 Infine, i costi di mantenere la missione rappresentano un’altra nota dolente per un’America da poco uscita dalla crisi che deve ancora fare i conti con i tagli alla spesa pubblica: per il 2013 il Pentagono ha avanzato la richiesta di 80 miliardi di dollari, dopo che la cifra dell’ultimo decennio ha superato abbondantemente i 500 miliardi di dollari. Un conto che il contribuente americano medio non vuole più pagare. Già nel maggio 2012 un sondaggio del New York Times e della CBS rivelava che oltre due terzi degli americani era favorevole a mettere la parola fine all’impegno in Afghanistan, uno sforzo che non ha contribuito a farli sentire più sicuri da una minaccia terroristica. 
Si spiega così, dunque, la dichiarazione di Rhodes, implicitamente – ma non apertamente – tenuta in vita da Obama all’indomani della visita a Washinton di Karzai e sul quale poteva anche esercitare un effetto “spauracchio” , spingendolo a portare avanti il discorso dell’immunità dei militari americani. E così è stato, anche se poi la decisione finale in merito non è nelle mani del Presidente afghano. Ma un ritiro totale non sembra praticabile, almeno non alla fine del 2014. A meno di non voler mettere fine ai tanto sbandierati programmi di addestramento e buttare al vento i miliardi di dollari impiegati fino a questo momento. Inoltre, le previsioni per il futuro della politica estera americana vedono gli Stati Uniti interessati all’Asia, sia per le questioni legate alla sicurezza (proliferare di gruppi jihadisti) che per ragioni economiche (sfruttamento dei giacimenti, sia di minerali che di risorse energetiche),  e non ultimo per questioni di geopolitica (cambiamento degli equilibri di tutta l’area, con Afghanistan accerchiato da Cina, Iran, India e Pakistan, tutti attori che cercheranno di influenzare il futuro del Paese). Ritirarsi del tutto significherebbe lasciare l’Afghanistan in mano ad altri protagonisti, nessuno dei quali veramente alleato degli Stati Uniti, con l’eccezione dell’India (forse). L’attuale mancanza di un coinvolgimento diretto sia nelle vicende del Medio Oriente, sia nel continente africano (lasciato imprudentemente in mano a Cina, Qatar, Turchia, Iran e ad alcuni Paesi europei) sembra confermare che il disimpegno in Asia non sarà totale. Ma i giochi sono ancora tutti aperti perché il futuro di entrambi i continenti non è mai stato così incerto.