“L’alba dei funerali di uno Stato”: perché ricordare Peppino Impastato è ancora necessario

Quarantasette anni dopo il vile attentato che gli costò la vita, nella stessa notte in cui morì Aldo Moro, il messaggio di Radio Aut deve continuare a risuonare forte


di Pietro Ranieri

PALERMO. “Era la notte buia dello Stato italiano, quella del 9 maggio ’78. La notte di via Caitani, del corpo di Aldo Moro, l’alba dei funerali di uno Stato”. Molti della mia generazione ricorderanno istintivamente queste parole, dal testo del brano ‘I Cento Passi’ dei Modena City Ramblers dedicato a Peppino Impastato. Evocative di tante feste studentesche, di tanti concerti, di Mak P, di scampagnate con una chitarra e la radio di una macchina a palla. Quando credevamo ancora agli eroi, forse. E che eroe era, Peppino? Un mito, per molti di noi. Una figura quasi mistica, leggendaria. Oggi è ancora il 9 maggio, è ancora quella notte buia. Pur dopo 47 anni dal vile attentato che gli costò la vita, è una ferita che la storia non rimargina.

Peppino non era un eroe armato, non brandiva pistole, non era un cavaliere senza macchia né un super col mantello, non usava la violenza né il potere. La sua arma era quella di qualunque bravo giornalista: la parola. Informare. Dire la verità. Una scelta potente tanto da sfondare il muro d’omertà che aleggiava nella società siciliana e italiana di quegli anni. Era un ragazzo come tanti, come noi, con sogni e ideali, ma con la schiena dritta. Non si voltò dall’altra parte, non si tappò le orecchie di fronte alle ingiustizie. Scelse di guardare in faccia il mostro, di chiamarlo per nome, consapevole dei rischi che correva. “La mafia è una montagna di merda”, quella scena del film così potente, tanto da diventare un simbolo, un urlo di libertà, di giustizia, di verità. Per la sua terra, che è anche la nostra terra.

Una voce e un microfono: quello di Radio Aut, da dove con ironia tagliente e la passione che gli bruciava come un fuoco nell’anima sbeffeggiava e metteva alla berlina i boss con nomi e cognomi. Perfino l’innominabile e intoccabile Gaetano Badalamenti, ‘Tano Seduto’, che fu successore di suo zio, Cesare Manzella, come capomafia locale a Cinisi e Terrasini. Un nome che lo lega anche a un’altra storia, ben cara ai cercatori di verità molisani: quella di Mino Pecorelli, e a quei contatti “amichevoli e talvolta anche diretti” – come sancì la Cassazione – con Andreotti, Bontate e i cugini Salvo.

Nel suo programma Onda Pazza, seguitissimo, Peppino smascherava il potere corrotto, la violenza silente, il cancro della mafia che si insinuava nel tessuto sociale. E la mafia, quella notte del 9 maggio, rispose con l’unica arma che invece conosce: quella della violenza, della logica barbara e brutale. Il corpo dilaniato sui binari, il tentativo di inscenare un suicidio, il depistaggio. Una morte forse oscurata da quella terribile e straziante di Moro. Ma fu nella speranza che Peppino venisse dimenticato che fiorirono i semi della sua immortalità.

Mi piace pensare, nonostante le apparenze, che Peppino non sia morto invano. Che il suo ricordo non sia solo un omaggio sterile, ma un invito all’azione. Il generale Patton, ai suoi uomini del D-Day, diceva che il coraggio è solo la paura che tarda un minuto in più. Peppino ci ha ricordato che è anche la forza di alzare la voce, nonostante tutto. La volontà di non cedere all’indifferenza. Di denunciare le ingiustizie, ovunque si trovino. E di non dimenticare mai le cose che contano davvero.

Source: Isernia News