L’altro volto della Sardegna: da Pau a Gonnesa tra ossidiana, nuraghi, ex villaggi minerari e land art

Sotto le suole delle scarpe lo scricchiolio dell’ossidiana assomiglia a un brusio lungo 6500 anni. In questo piccolo angolo di Sardegna che insiste nel comune di Pau, 300 abitanti in provincia di Oristano, aggrappato al versante occidentale del Monte Arci, circondato da boschi secolari, l’arte ha le forme e il colore dell’ossidiana. Un vetro, o meglio una roccia di origine vulcanica, formatasi migliaia di anni fa in seguito al rapido raffreddamento della lava ricca di silice e alcali. Nero è il suo colore, come gli occhi di questa terra, la Sardegna più nascosta, ma anche la più autentica, sferzata dal Maestrale, meno dai grandi flussi turistici. C’è un filo nero, fatto di connessioni di pietra, che unisce la storia dell’ossidiana all’archeologia di questi luoghi, alle antiche comunità – che, fin dal Neolitico, hanno trasformato questo vetro in prodotti semilavorati destinati all’esportazione – ma anche ai nuraghi, intrecciandola a quella di un museo unico al mondo (che ha solo un gemello in Giappone) fino a condurci in una necropoli che entro fine anno sarà svelata ai visitatori e inserita in un avvincente percorso di visita grazie a un progetto di riqualificazione. Questo filo, che cuce le trame di una Sardegna “altra”, si dispiega in un itinerario d’arte che dall’area geografica dell’Alta Marmilla, sul versante ovest del massiccio vulcanico del Monte Arci, precisamente a Pau (Oristano) conduce a Gonnesa, versante a sud-occidentale nella regione dell’Iglesiente. Un tour d’arte che chi scrive ha percorso, seguendo le tappe di un itinerario organizzato dalla Società Orientare per conto dei comuni di Gonnesa e Pau e della Fondazione di Sardegna. Ma andiamo con ordine. Il sentiero di “Sa Scaba Crobina” e le officine di scheggiatura preistorica Il viaggio inizia dal Parco dell’Ossidiana, a circa tre chilometri dal paese di Pau. Qui sono state individuate diverse officine di lavorazione neolitica del tagliente vetro vulcanico, la più estesa delle quali, in località Sennixeddu, racchiude il sentiero di “Sa Scaba Crobina” (“La scala corvina”, per via dei dislivelli e del colore scuro del suolo). Siamo nel Parco Geominerario storico e ambientale del Monte Arci, dichiarato nel 1998 dall’Unesco primo parco Geominerario al mondo. Le officine di lavorazione dell’ossidiana del territorio di Pau rappresentano al momento il caso meglio documentato di centri di trasformazione della materia vicino ai luoghi in cui essa si è formata. E infatti l’ossidiana che si calpesta inerpicandosi lungo sentiero di “Sa Scaba Crobina” non è altro che una sovrapposizione di scarti lavorazione di questo materiale. Oltre a essere una risorsa pratica, l’ossidiana aveva anche un valore simbolico, associato molto probabilmente, per via della lucentezza e del colore nero, a concetti spirituali legati alla vita e alla morte. Avanzando all’interno di un bosco profumato che si inerpica tra querce e macchia mediterranea ci si ferma a osservare qualche pezzetto di questo vetro vulcanico (su tutto il territorio vige il divieto di asportare l’ossidiana dal monte Arci per la tutela della risorsa geologica e archeologica). Percorrendo questo stesso sentiero, agli inizi del 1800, il geografo Alberto de La Marmora annotava: “Il viaggiatore ha qualche volta l’impressione di camminare sui cocci di una vecchia fabbrica di bottiglie nere tanto sono numerose le scaglie di un vetro nero vulcanico che è chiamato ossidiana”. Il Sentiero dell’Ossidiana di Sa Scaba Crobina | Foto: Samantha De Martin per ARTE.it 2025E in effetti è suggestivo ritrovarsi nel cuore vibrante di un museo a cielo aperto con “reperti” di vetro che fungono da frammenti di una storia millenaria unica che racconta l’intensa attività di trasformazione della risorsa andata avanti nell’area per oltre 3000 anni (dal 4300 al 1200 a.C.), dal neolitico all’età nuragica. In quest’epoca l’ossidiana, raccolta allo stato naturale, veniva trasformata in manufatti (nuclei) preforme destinate allo scambio, anche oltre mare. Da questi venivano ricavate le lame, utili supporti per realizzare specifici strumenti. L’attività di scheggiatura raggiunge il suo culmine nel 4000 a C. In età del rame veniva impiegata per costruire strumenti d’uso comune e raffinate armatura di freccia. Un unicum in Sardegna: la necropoli di Su Forru de is Sinzurreddus A una manciata di passi dal Sentiero dell’Ossidiana, la necropoli di Su Forru de is Sinzurreddus (“il forno dei pipistrelli) aspetta di svelare la sua ricca storia al pubblico. Entro fine anno aprirà alle visite e sarà inserita nel percorso del Parco dell’Ossidiana. Questo piccolo antro è stato oggetto di indagini archeologiche effettuate a partire dal 2002 dall’ Università degli studi di Cagliari, con la direzione scientifica dell’illuminato professor Carlo Lugli. Lo scavo, durato 14 anni, ha restituito informazioni preziose, oltre a straordinari reperti archeologici. Ricovero per il bestiame in età moderna, la cavità ha registrato la presenza di almeno 24 individui, testimoniata dal rinvenimento di oltre 50.000 frammenti ossei con tracce di combustione, appartenenti a uomini, donne e bambini che 6.500 anni fa furono sepolti al suo interno. Cos’era accaduto? Questi individui furono cremati altrove per poi essere deposti all’interno della grotta.”Su forru de Is Sinzurreddus” (Pau) | Foto: Samantha De Martin per ARTE.it 2025 “I frammenti – spiega l’archeologa Giovanna Rizzo, responsabile della promozione culturale del Museo dell’Ossidiana di Pau – ci parlano di una comunitá di individui che risiedeva presso le officine di lavorazione, la cui età era compresa tra zero e 50 anni. I loro denti raccontano lo stato di una comunità in buona salute che si nutriva bene. Il sito è contemporaneo al luogo di scheggiatura dell’ossidiana. Sono stati rinvenuti anche recipienti con tracce di contenuto. E poi ornamenti come vaghi di collana o bracciali lavorati”. Immancabile l’ossidiana, che, pur essendo presente in poche tracce, compare in forma di blocchetti saggiati non pregiati. Alcuni semi rinvenuti dagli archeologi ci dicono molto sulle attività di questa comunità che, in un ambiente molto simile a quello di oggi, coltivava l’orzo. Sono stati rinvenuti anche residui di ghiande. Siamo di fronte a un rituale di incinerazione secondaria, unico momento in cui si riscontra traccia di un’attività non legata alla sfera funeraria. All’età del rame risalgono invece anellini in argento da dito e per capelli e raffinate armature di freccia in ossidiana locale. Al momento la grotta non è aperta al pubblico. Il resto del Parco dell’Ossidiana è visitabile su prenotazione con la guida delle archeologhe dell’Associazione culturale Menabò. Il Museo dell’Ossidiana di Pau Il filo di questo racconto conduce a pochi minuti dal Parco dell’Ossidiana di Sa Scaba Crobina. Dopo l’esperienza all’interno del museo a cielo aperto eccoci tra le Sale del Museo dell’Ossidiana di Pau, un luogo dove il linguaggio della pietra si fa arte. Gemellato dal 2014 con l’Obsidian Museum of Archaeology di Nogawa, in Giappone, questo museo monotematico legato al territorio è ad oggi l’unica realtà espositiva in Europa dedicata in via esclusiva alla risorsa ossidiana. Museo dell’Ossidiana, Pau (Oristano) | Foto: © Giuseppe MurruUn percorso museale moderno, arricchito da esperienze tattili e da sussidi didattici in braille, attraversa la storia di questa roccia vulcanica, dalla sua formazione geologica alle principali caratteristiche chimiche e fisiche, fino al suo sfruttamento e lavorazione da parte delle comunità neolitiche di Sardegna, con un’attenzione particolare alle tecniche preistoriche di scheggiatura, ai materiali prodotti, alla loro diffusione nel Mediterraneo, all’organizzazione del lavoro nelle officine. Nato nel 2007 per raccogliere i risultati delle ricerche condotte dal gruppo di studio coordinato dal professore Carlo Lugliè dell’Università degli studi di Cagliari intorno alla tematica, il Museo dell’Ossidiana vuole rispondere a uno dei quesiti degli archeologi: a cosa è servita l’ossidiana del monte Arci, un vulcano dalla forma a scudo, spento da 2 milioni e 400mila anni? Visitando il museo si scopre come questa roccia rara si sia formata in 3 milioni e 500mila anni fa. Le vetrine espongono anche altre ossidiane, diverse da quelle del monte Arci, rinvenute in giro per il mondo, dal Perù a Lipari fino a Pantelleria. C’è l’ossidiana verde di ambito anatolico e c’è quella rossa. Basta un frammento per raccontare uno spostamento via mare. Scopriamo che l’ossidiana del monte Arci ha raggiunto la Liguria ottomila anni fa, per essere rinvenuta anche in Francia. C’è una sala che mette in luce le proprietà chimiche e ottiche, un’altra le tecniche di lavorazione. Ciò che rende particolare l’ossidiana del monte Arci è proprio l’utilizzo di questo materiale presso le comunità, impiegato per realizzare punte di lancia, strumenti per grattare la pelle, per raschiare e per tagliare i cereali, e ancora lame per lavorare le fibre vegetali, o strumenti per incidere e forare.Museo dell’Ossidiana, Pau (Oristano) | Foto: © Giuseppe MurruPer estensione le officine di lavorazione del monte Arci trovano un confronto solo sull’isola greca di Milos. La visita è consigliata anche alle famiglie con bambini. Il personale propone infatti diverse modalità di visita, calibrate in funzione di ogni specifica utenza, dai laboratori per i più piccoli ai tour per un pubblico esperto. Un viaggio lungo 3500 anni: bellezza e mistero al Nuraghe Seruci Lasciato il piccolo centro di Pau, superato Ales, il borgo natale di Antonio Gramsci, con le inconfondibili cupole che incorniciano Cattedrale, l’itinerario punta verso Gonnesa, nel Sulcis Iglesiente, un centinaio di chilometri a sud-ovest. Sulla rivista “Cronaca Bizantina” Gabriele D’Annunzio ne ricorda le “casette bianche…rannicchiate ai piedi di un grande cono alpestre”. Ecco la chiesa di sant’Andrea apostolo, costruita tra XI e XIII secolo in stile romanico. Bastano una passeggiata, poco fuori il paese, in una duna fossile di 540 milioni di anni, una visita alla Spiaggia di Porto Paglia con la vecchia tonnara e il villaggio dei tonnaroti del 1615, i ruderi di una torre spagnola, databile tra il 1577 ed il 1639 sferzata dal Maestrale mentre la vista spazia fino al Pan di zucchero, uno dei monumenti naturali più imponenti dell’Isola, simbolo della costa di Iglesias, per recuperare le energie in attesa del tramonto. Questo è il momento migliore, dicono, per raggiungere il Nuraghe Seruci, che sfoggia all’ultima luce del giorno, il suo volto più suggestivo. Si guadagna nuovamente l’entroterra e in soli tre chilometri la vista passa dal blu smeraldo a un giallo intensissimo, impigliandosi in un abbraccio abbagliante che sa di quercia e lentisco pettinato dal vento. Accolti dai ragazzi dell’Associazione culturale Villa Conesa, i visitatori intraprendono un viaggio carico di bellezza e mistero. Nuraghe Seruci, Gonnesa, Iglesiente | Foto: Samantha De Martin per ARTE.it 2025Con i suoi sei ettari, il complesso nuragico di Seruci è uno dei siti archeologici dell’età del bronzo più grandi della Sardegna. Il suo perimetro racchiude un villaggio di circa 200 capanne e un maestoso nuraghe complesso antemurale, penta o esalobato, con torri collegate in maniera originale, e ancora strade, piazze, vicoli, e una tomba di Giganti. La costruzione inizia presumibilmente a fine XIV secolo a.C., mentre la sua vita si protrae fino al X a.C., attraversando varie fasi evolutive. Tanto si è scavato e tanto si dovrà ancora scavare, spiegano le guide. Al momento il sito ha restituito numerosi reperti (tra i quali scarti di lavorazione di ossidiana utilizzata per produrre punte di freccia) e ancora perline in vetro di epoca fenicia, un frammento di lingotto in rame dalla Siria, un pugnale, panelle in bronzo forse usate come monete di scambio, un bottone in piombo, a testimonianza di come la civiltà nuragica, evidentemente una civiltà dedita al commercio, intrattenesse rapporti con il Mediterraneo antico. Fino agli anni Novanta, adiacente al nuraghe, che era interamente ricoperto di vegetazione, risiedeva una famiglia. Da qui la vista si perde fino a Carloforte, Sant’Antioco, sospinta da un vento che sferza ma che la popolazione asseconda con orgoglio e resilienza. Evidentemente, dalla sua posizione rialzata, questo nuraghe, uno degli ottomila di cui la Sardegna è ricca, controllava il commercio e l’attività mineraria fino a Porto Flavia. Seruci non è un complesso ordinato, né costruito su un unico progetto, mostra una torre principale decentrata, due cortili, una tholos (cupola intatta), mentre è ancora visibile una nicchia con scala in pietra che conduce al piano superiore, che sarà oggetto di scavo. Del complesso faceva parte anche un cortile con un pozzo profondo dodici metri costruito come un nuraghe, ma capovolto, che ha restituito brocchette lavorate per il vino.Mentre il tramonto addolcisce i contorni di questo paesaggio all’apparenza aspro ecco altri ambienti che dovevano accogliere il focolare sacro e la ‘capanna delle terme’ con il bacile centrale pieno d’acqua, nel quale venivano immerse le pietre roventi per sprigionare il vapore. Esattamente una SPA ante litteram. Anche se una delle aree più suggestive di questo complesso nuragico è forse rappresentata da una grande piazza, probabilmente la ‘capanna delle riunioni’, una sorta di agorà dove la comunità nuragica si incontrava per prendere le decisioni.Nuraghe Seruci, Gonnesa, Iglesiente | Foto: Samantha De Martin per ARTE.it 2025 La rinascita del Villaggio Normann, tra archeologia industriale e land art La circolarità delle sedute megalitiche della capanna delle riunioni ci connette a un altro luogo, esempio di archeologia industriale, singolare laboratorio di rigenerazione urbana e sociale, al centro di un virtuoso progetto comunitario finalizzato a conservare il valore storico, archeologico e naturalistico di un angolo di Sardegna. Siamo nel Belvedere del Villaggio Normann, un vecchio insediamento minerario “in bocca di miniera”, appunto la miniera di San Giovanni, che ha rappresentato una delle più importanti attività estrattive di piombo e zinco. Situato all’interno del Sito di interesse comunitario (S.I.C.) “Costa di Nebida”, prende il nome dall’ingegnere Edward Normann, direttore della miniera tra il 1867 e il 1881 e scopritore dell’omonimo giacimento. Questo luogo, a sette chilometri da Gonnesa, a una sessantina da Cagliari, rappresenta oggi una delle più interessanti testimonianze dell’epopea mineraria della Sardegna, una tappa obbligata per chiunque visiti il Sulcis-Iglesiente. Lo si raggiunge in una ventina di minuti d’auto, percorrendo, da Gonnesa, la SS 126 verso nord-est. Questo pugno di case immerse tra i pini e i lecci è stato costruito tra la fine diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo dalla società Gonnesa Mining Company Ltd, applicando la regola allora vigente della separazione tra classi. Se il villaggio fu destinato ai dirigenti e i quadri, i minatori furono confinati all’interno delle case operaie nella vicina miniera di San Giovanni e del villaggio operaio di Bindua, aree, ben differenziate, presidiate talvolta da guardie armate. Villaggio Normann | Foto: Samantha De Martin per ARTE.it 2025Oggi il Villaggio Normann, più che una “ghost town” di cui la Sardegna, e in particolare l’Iglesiente è ormai disseminata, è un luogo che guarda al futuro. Questo interessante esempio di archeologia industriale si presenta oggi come un minuscolo agglomerato di abitazioni attraversato da suggestivi sentieri riaperti dai volontari dell’Associazione di volontariato Villaggio Normann. In collaborazione con i Comuni di Gonnesa e Iglesias, il Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna, la Fondazione di Sardegna, l’Agenzia Regionale Forestas, il Club Alpino Italiano, sono stati recuperati quasi 50 Km di vecchi sentieri, carreggi, decauville, vecchie ferrovie che introducono l’escursionista in un mondo antico che ha appunto come epicentro il Villaggio Normann. Camminando ci si imbatte in “Villa Stefani”, dal cognome dell’ultimo direttore della miniera, in evidente stile britannico con tredici comignoli, e ancora nella vecchia chiesa dedicata a San Giovanni Battista, nella foresteria degli scapoli, nello spaccio, nell’ex campo da tennis, nel circolo degli impiegati. Dismessa negli anni Ottanta, la miniera inizia la sua lenta chiusura avvenuta nel giro di una decina di anni, lasciandosi dietro il silenzio di chi, una mano più grande dell’altra per via del lavoro usurante, gli occhi scavati dal buio, non ha mai voluto parlare troppo di un passato pesante, quando abbandonare la postazione in miniera, anche per esigenze fisiologiche, significava farsi togliere mezza giornata di lavoro. Basta percorrere alcuni metri per scorgere un altro esempio di valorizzazione: un vecchio muro è diventato oggi un erbario, appunto “l’Erbario di Normann” dove i bambini delle scuole disegnano le erbe raccolte nel territorio. Oggi il villaggio ospita una ventina di nuclei familiari che abitano le case ex minerarie, ormai acquistate dai residenti. Ma l’anima moderna (e il futuro) di questo luogo si percepiscono raggiungendo la terrazza che accoglie uno spazio artistico comunitario sospeso tra il Monte San Giovanni e il Golfo del Leone. Un intervento collettivo di land art realizzato interamente con il lavoro e le competenze dei volontari dell’associazione Villaggio Normann Odv. Sull’assolata terrazza la sagoma di Bosano, il rivoluzionario cavallo di miniera, noto per non potare più di sette carrelli, anche se vuoti, capace di contare il numero dei rintocchi che facevano uno sull’altro, rivive (e fa rivivere) la memoria dl luogo grazie un’opera realizzata dall’artista Francesco Careri, co-fondatore di Stalker / Osservatorio Nomade, una struttura interdisciplinare che compie ricerche e progetti sulla città attraverso l’esperienza diretta degli spazi complessi e l’interazione con gli abitanti. Villaggio Normann, Belvedere con la scultura dedicata a Bosano | Foto: Samantha De Martin per ARTE.itPierluigi Carta, presidente dell’Associazione Villaggio Normann, parla di un progetto eseguito da volontari, volto a ricercare e recuperare, la bellezza perduta di un luogo storico. “Il Progetto Belvedere, patrocinato anche dal comune di Gonnesa, è prima di tutto un progetto di comunità, dove i codici e i linguaggi dell’arte contemporanea vengono utilizzati per recuperare e ricostituire un rapporto sostenibile tra ambiente naturale, culturale e sociale. Sono state le arti visive a guidare l’evoluzione nel tempo del concetto di paesaggio. Per prima cosa abbiamo voluto convincere i residenti che questo luogo incompiuto poteva essere trasformato in uno spazio di socializzazione con una propria personalità. Così gli stessi residenti sono diventati i primi ambasciatori della sua storia. In questa azione di restituzione vista mare abbiamo utilizzato i legni recuperati a mare. I ferri che fanno rivivere il cavallo Bosano sono fioretti di perforazione, l’elmetto sulla testa è stato ricavato da un vecchio tubo di miniera”. Qui dove presto due artisti francesi daranno vita a una residenza d’artista, insistono le testimonianze di un frammento di storia economica sarda fatto di ricchezza, ma anche di dolore e diseguaglianza. Superato il Golfo del Leone lo sguardo sfiora la palude di Sa Masa, scivola lungo le falesie calcaree del Monte San Giovanni, profilo delle alture che dal mare si dirigono verso la città di Iglesias. Artefice di secoli di sfruttamento minerario, l’uomo ha cambiato il suo ruolo, riconoscendosi come parte della natura e assumendosi la responsabilità della sua difesa e salvaguardia. La scultura che ricorda Bosano, qui seppellito dal 1957, assieme ai suoi sette carrelli che trascinava nelle gallerie di questa montagna, sembra sorridere. Finalmente, come i suoi padroni, galoppa, redento, nel vento.
Source: Arte