Il dominio del mare è per i cinesi condizione essenziale per il dominio del commercio e pertanto dell’economia globale e quello del Pacifico è anche condizione primaria di sicurezza e poi di sopravvivenza.
Si continua a parlare, spesso a sproposito di indopacifico, ma mentre il Pacifico è il terreno diretta di contesa tra Cina e Stati Uniti (ed è stata alla base dei maggiori conflitti del secolo scorso), l’Oceano Indiano il più “piccolo” degli oceani è condizionante, limite fondamentale dell’espansionismo cinese.
Il Pacifico è l’area di contesa, l’Oceano indiano l’area di scontro (che ci riguarda).
Per l’Occidente anzi, riesumando un ormai desueto termine, per il mondo libero è fondamentale il controllo se non il dominio di questo Oceano dove, a vantaggio di tutti, può concretarsi una nuova convergenza di alleanze.
L’espansionismo cinese e le sue forme possono costituire il collante, motivo e strumento di affinità e di unione, ma le difficoltà di paesi/nazioni separati da immense distanze, separati soprattutto dall’acqua, dai mari potrebbero anche complicare gli sforzi per organizzare e tenere insieme una coalizione di contrasto che dovrebbe essere in grado di scoraggiare la guerra (ed ancora potrebbe essere in grado di farlo).
È in corso una competizione militare in tempo di pace: una nuova guerra fredda, progressivamente sempre meno fredda, dove il mare è protagonista e la regione indo-pacifica è il fronte centrale, che riguarda tutto l’occidente e deve essere percepita come minaccia globale.
Il dilemma delle alleanze (anche nel caso della NATO) quando migliaia di miglia separano i potenziali membri può essere la difficoltà nel convincere i membri a concordare in anticipo che un attacco a uno di essi debba essere considerato come un attacco a tutti.
Volenti o nolenti gli Stati Uniti sono ancora protagonisti della situazione e consci della portata e delle ripercussioni del possibile conflitto che si ripresenta nel Pacifico, per loro vero “mare di casa”. La contesa riguarda lo sviluppo, e prima ancora la sopravvivenza di tutto il sistema occidentale che conosciamo ed a cui aspiriamo.
Guerra fredda con caratteristiche cinesi: la posta in gioco nell’Indopacifico
Il commercio rimane il motore essenziale della crescita cinese e la maggior parte degli scambi avviene via mare. In sintesi, si può affermare che oggi la Cina è una grande potenza perché è diventata una nazione marittima.
Il potere degli Stati Uniti, in particolare quello navale, ostacolava (ed in forma forse minore ostacola ancor oggi) anche il raggiungimento degli obiettivi regionali di Pechino, ovvero il “recupero” di Taiwan e l’affermazione delle proprie rivendicazioni marittime nel Mar Cinese Orientale e Meridionale.
Commercio e potere marittimo: le strategie al riguardo
A partire dall’inizio del secolo, i leader e gli strateghi militari cinesi hanno iniziato a guardare oltre le loro immediate vicinanze e a contemplare le implicazioni del diventare una potenza globale.
Navi, sempre più navi, anche come strumento interno di sviluppo ed occupazione e strumento esterno di condizionamento degli avversari (o semplicemente di condizionamento di tutti): certamente la cantieristica è stato uno dei migliori, se non il migliore investimento strategico cinese, con costi inferiori e risultati enormemente superiori a quelli della BRI (Belt & Road Initiative, la Via della Seta).
Fin dai primi anni ’90, i pianificatori del PLA (People’ Liberation Army, Esercito Popolare di Liberazione, di cui la PLAN è la componente navale) hanno cercato di sviluppare armi e concetti operativi con cui contrastare qualsiasi tentativo, presente e futuro, degli Stati Uniti di mantenere il potere marittimo, prima di tutto quello navale, nel Pacifico occidentale (mentre a livello globale la Cina ha puntato tutto sulla conquista del potere marittimo, in tutti i suoi diversi aspetti).

Le aspirazioni, i mari contesi e le dispute (secondo una mappa del GIS, Geopolitical Intelligence Service)
Pechino ha messo in atto un complesso sistema mirante all’interdizione (A2/AD, extensive AntiAccess/Area-Denial): una combinazione di sistemi in grado di colpire a distanze sempre maggiori dalle coste cinesi.
Per il consolidamento del dominio navale limitrofo Pechino è ricorsa in forma creativa anche a mezzi e sistemi “non convenzionali”, costruendo isole e dispiegando una consistente milizia marittima (che coinvolge la marina mercantile).
Queste attività sono chiaramente volte a scoraggiare l’intervento degli Stati Uniti in un eventuale futuro conflitto sul perimetro delle coste cinesi ed a ritardarlo e sconfiggerlo nel caso in cui la deterrenza dovesse fallire.
Pur puntando sulla preparazione militare, nel lungo periodo Pechino spera evidentemente di “vincere senza combattere“, minando la credibilità delle garanzie di sicurezza occidentali, indebolendo le alleanze e spianando la strada alla Cina come potenza egemone.
In quest’ottica ha puntato sulla marittimità, e la sua strategia travalica il Pacifico, riguarda tutti i mari, e ci riguarda ampiamente e direttamente, con l’area chiave del Mediterraneo (dove vorremmo contare come paese e come sistema, ma dove non esiste né coesione né strategia europea e dove veniamo progressivamente espropriati, anche a livello nazionale, anche attraverso una penetrazione strisciante che non viene sufficientemente percepita da politica e dai media, a loro volta soggetti a influenze ed asservimenti).
Il commercio è stato drogato, a livello globale, ed oggi è materia di contesa
Nel 2004 il presidente Hu Jintao affidò al PLA, e conseguentemente alla PLAN, la Marina Cinese, la responsabilità di adempiere alla “nuova missione storica” di proiettare gli interessi della Cina ben oltre le coste nazionali.
Si manifestò in tal modo il cosiddetto “Dilemma di Malacca”: il fatto che gran parte delle importazioni della nazione, e in particolare quelle di energia, transitino attraverso gli stretti rendendole suscettibili di interdizione.
La risposta di Pechino si è sviluppata in diverse forme e su vari livelli, interconnessi, e la “via della Seta” ne è espressione, nelle sue innumerevoli varianti (una coperta che abbraccia e giustifica TUTTO, anche impropriamente).
Gli investimenti cinesi degli ultimi due decenni in oleodotti, strade e ferrovie trans-eurasiatiche appaiono talvolta irrazionali se valutati in termini puramente economici.
In condizioni normali di pace, le navi possono trasportare volumi di carico molto maggiori e a costi molto più bassi.
In caso di conflitto, tuttavia, i collegamenti via terra potrebbero fornire un’alternativa vitale, consentendo almeno un flusso di energia e materie prime sufficiente a mantenere un’economia di guerra.
Allo stesso modo, molti dei porti e delle altre strutture che la Cina ha acquistato o costruito lungo l’asse marittimo della tanto sbandierata Belt and Road Initiative di Xi Jinping sembrerebbero operare in perdita e potrebbero non produrre mai profitti.
Il controllo di questi hub logistici serve anche a garantire che, in caso di crisi, le merci dirette in Cina (molte delle quali trasportate su navi costruite, possedute e gestite da imprese statali cinesi) abbiano la massima priorità.
Alcune delle strutture che si stanno sviluppando con investimenti cinesi all’estero, in particolare sulle rotte dell’Oceano Indiano, sono concepite come basi avanzate, e già sono oggetto di frequenti presenze di navi e aerei militari.
Con un crescente incremento numerico della PLAN (la Marina Cinese), da tempo si vocifera di una configurazione per teatri operativi e la priorità di una flotta dedicata all’Oceano Indiano.
Il Dragone ha imparato a nuotare, ma deve affrontare il dilemma dello stare in mare
Mentre le capacità della Cina nel Pacifico sono già abbastanza mature e il loro scopo evidente, nell’Oceano Indiano è vero il contrario.
La PLAN ha capacità di presenza ed esperienza acquisita di pattugliamenti antipirateria al largo dell’Africa, ma non è ancora pronta a proiettare forze capaci di intimidire o sostenere governi locali, e ancor meno per infliggere una sconfitta decisiva alla Marina di un concorrente di un certo livello come l’India, per non parlare del confronto con gli Stati Uniti.
Sebbene si punti a forze utili a scopi e per contingenze meno estreme, a meno e fino a quando non riuscirà ad acquisire forza e reali capacità, numeriche, di preparazione, di dislocazione, Pechino non potrà essere sicura né di poter interferire né di proteggere le proprie linee di comunicazione marittime nell’Oceano Indiano.
L’occidente, i partner regionali e gli stessi Stati Uniti ritengono che preservare lo status quo sia essenziale per la loro sicurezza; i leader cinesi – che al contrario delle controparti, godono di una straordinaria continuità, e non sono soggetti a verifiche ed accettazione popolare – sono altrettanto convinti che la sopravvivenza del loro partito e della loro nazione dipenda dalla profonda revisione dell’ordine mondiale (e da qui la scelta di alleanze ed il concetto dell’ ”onda del futuro” che si riprende a continuazione).
Se il principale obbiettivo del Partito Comunista Cinese è prendere il controllo di Taiwan, completando il controllo della prima catena di isole, risulta più facile per la PLAN spingersi nel Pacifico occidentale per impegnare le flotte avversarie e minacciare le linee di comunicazione marittime che corrono verso la Corea del Sud, il Giappone e da lì all’Australia.
Se riuscirà a far valere le proprie rivendicazioni marittime, Pechino sarà in grado di controllare l’uso delle risorse naturali del Mar Cinese Orientale e Meridionale. Avere la capacità di regolare il traffico attraverso il Mar Cinese Meridionale consentirebbe inoltre al regime di esercitare pressioni diplomatiche e forse di imporre condizioni, certamente di influenza ma anche economiche, ai suoi vicini dell’Asia nordorientale.
Come minimo, potrebbe costringere le navi di altri Paesi a seguire rotte più lunghe e costose per raggiungere le loro destinazioni.
Allo stesso modo, se la Cina acquisisse la capacità di interdire la navigazione e di dominare i punti di strozzatura alle TRE estremità dell’Oceano Indiano, sarebbe in grado non solo di minacciare l’India, ma anche di interrompere “a piacere” i flussi commerciali da e verso l’Europa occidentale, l’Asia orientale e gli Stati Uniti.
Per far ciò Pechino deve minare le alleanze in Asia, e respingere le forze occidentali, al momento prevalentemente statunitensi, verso la seconda catena di isole; il controllo sulle acque del Pacifico è fondamentale per costruire un nuovo ordine eurasiatico.

L’ Oceano Pacifico: le aspirazioni, i mari da contendere, le linee invalicabili.
Aspirazioni che al momento possono essere contrastate solo dagli Stati Uniti: il QUAD sembra prendere forza e con una interpretazione più estesa le Nazioni Europee possono contribuire al contenimento insieme all’India .
Le nazioni Europee, e l’Italia in particolare, dovrebbero anche riflettere sul fatto che essere nel Pacifico comporta anche ristabilire rapporti con l’America Latina: l’Europa, non solo gli USA, dipende da questo accesso, e dal controllo del Canale di Panama.
Gli strateghi cinesi hanno evidentemente in mente un sistema sino-centrico in cui i vicini continentali e marittimi siano economicamente dipendenti dalla Cina e politicamente subordinati ad essa, e da cui gli occidentali devono essere (quando già non lo sono) in gran parte esclusi.
Estendendo questo concetto occorre la massima attenzione sull’evoluzione e la mutevolezza del blocco BRIC (caratterizzato dalla volubilità e volatilità di alcuni partner, e soprattutto dal posizionamento non sempre lineare ed in continuità dell’India, la vera alternativa al controllo cinese).
La strategia cinese punta ad indebolire e possibilmente a sciogliere alleanze di lunga data, non solo limitando capacità di proiezione e di esercizio del potere (essenzialmente) navale; questa tradizione di rapporti fa parte del collante occidentale, (magari chiedendosi se ne fa ancora parte come valori).
Verrebbero sminuiti i valori e gli obiettivi che hanno caratterizzato l’ultimo secolo e suscitato speranze per il nuovo, e si darebbe credito alla pretesa di Pechino che il suo sistema autoritario rappresenti “l’onda del futuro”.
Con questo la Cina otterrebbe uno “zoccolo duro”, da cui proiettare il proprio potere in altre parti del mondo, certamente come primo obiettivo nell’area mediterranea, come “ventre molle” dell’emisfero occidentale.
I leader cinesi preferirebbero ovviamente raggiungere i loro obiettivi nell’Indo-Pacifico attraverso l’accumulo incrementale di rendite di posizione e senza i costi e i rischi di uno scontro diretto.
La “teoria della vittoria” del PLA sembra prevedere un primo attacco che nelle fasi iniziali metta fuori gioco gli Stati Uniti, come “tutore” dell’attuale ordine, attacco accompagnato da alcune prese di posizioni ma soprattutto dal massiccio presidio di spazi marittimi chiave e dall’istituzione di un perimetro difensivo lungo la prima catena di isole.
Esiste d’altra un consenso generale – in funzione anticinese – sull’importanza della deterrenza attraverso la negazione, costituendo forze e difese attive e passive per sopravvivere a un attacco iniziale, smorzare l’offensiva che lo accompagna e impedire alla Cina di raggiungere rapidamente i suoi obiettivi iniziali.
Se, nonostante la preparazione, non si riuscisse a negare alla Cina gli obiettivi iniziali, si dovrebbero considerare opzioni diverse dalla capitolazione o da un’escalation catastrofica, e tra le opzioni – pre e post – occorre considerare l’interazione tra i due Oceani, Pacifico e Indiano.
Le opzioni di contrasto, riconoscendole facendole proprie, se necessario
Pur con una ovvia posizione di forza ad Oriente, almeno per ora la posizione della Cina rimane e rimarrà ancora piuttosto fragile nell’Oceano Indiano: le stesse reazioni ai recenti eventi in Iran sembrano rafforzare questa ipotesi.
Al momento dell’attacco israeliano (e nemmeno del bombardamento americano) i grandi protettori dell’Iran non hanno neppure accennato a mosse di appoggio e – se le possibilità e le alleanze si giudicano nei fatti – il bilancio è abbastanza allarmante per la Cina, che dipende in notevole misura dalle forniture energetiche della regione.
Si è trattato della conferma che qualsiasi forza dispiegata dalla Cina in quella zona all’inizio di un conflitto rischierebbe di essere tagliata fuori se gli Stati Uniti e i loro alleati non solo riuscissero a controllare gli stretti attorno all’arcipelago indonesiano, ma anche controllassero i transiti nell’oceano Indiano.

L’Oceano Indiano è ancora blu (e non giallo) e per questo spazio vale ancora il termine “minaccia cinese”, che, come tale, può e deve essere contrastata: una minaccia (ben lontana dall’essere un “fatto compiuto” ed un dominio acquisito) che si manifesta nella crescente influenza e presenza della Cina in questa regione, con preoccupazioni tra i paesi limitrofi e le potenze occidentali.
La Cina sta attuando una strategia di “collana di perle”, costruendo o acquisendo porti e infrastrutture in paesi come Sri Lanka, Pakistan, Bangladesh e Myanmar, per rafforzare la sua presenza economica e militare, incluse attività complementari per quanto fondamentali per la conquista del potere marittimo, dall’incremento delle attività di pesca alla logistica ed i trasporti marittimi.
La capacità di controllo e di operazioni nell’ Oceano Indiano costituiscono al momento i termini di una reale deterrenza, o almeno di contenimento dell’espansionismo cinese: è quanto l’Occidente, e non (solo) gli Stati Uniti, sta dimostrando di saper fare e poter fare, si tratta di dimostrare di volerlo fare…
Da una parte, quella cinese, senza un netto miglioramento delle capacità difensive e senza le capacità logistiche e di permanenza in mare che comunque (pur con difficoltà) contraddistinguono le Marine occidentali, le unità di superficie della PLAN risultano vulnerabili, e non esiste (ancora) un sistema ed un’alleanza che rendano permanente e refrattaria una permanenza nel teatro, mentre la minaccia subacquea che la potrebbe esercitare è tutta da dimostrare.
All’opposto va considerato come sia questa la sola area dove le forze cinesi – se riuscissero a sferrare il primo colpo e fossero in grado di danneggiare seriamente le navi e le strutture degli Stati Uniti e dei loro partner – riuscirebbero, grazie anche ai loro proxy (peraltro ultimamente molto ridimensionati), a strozzare i trasporti commerciali del mondo libero, agendo sui principali choke points e costringendo lo spostamento di forze statunitensi dal Pacifico all’Oceano Indiano.
È logico che i pianificatori del PLA preferiscano, se devono disperdere se non sacrificare forze in un teatro secondario, usarle per prime.
Ne consegue che, se intendono iniziare ostilità di qualsiasi genere nel Pacifico, alle porte di casa, i leader cinesi possano essere molto tentati a condurre forti azioni preventive nell’Oceano Indiano.
L’Oceano indiano e la necessità di esserci ed operare
Il blocco marittimo sarà in cima alla lista delle possibilità, da una parte e dall’altra.
Gli europei, pur con la pesante esperienza del Mar Rosso, non hanno affrontato a fondo il tema in termini di risposta unitaria del blocco occidentale; tutto ciò non sembra della massima priorità politica (anche se potrebbe rientrare in una nuova fase delle alleanze militari, inclusa la NATO con i suoi dilemmi sui livelli spesa).
Nonostante la mancanza di un dibattito e di una linea nota di indirizzo comune da parte occidentale, quello che traspare è un certo timore cinese, una percezione di possibile vulnerabilità che si traduce negli investimenti di Pechino in rotte di trasporto alternative, capacità di trasporto commerciale, strutture portuali all’estero.
Tutto questo dovrebbe suggerire che i pianificatori cinesi stiano prendendo molto sul serio la possibilità di un blocco, anche di quello attivo nei loro confronti.
Il dragone ha imparato da tempo a nuotare ma non sembra però ancora capace od in grado di farlo in acque profonde, sembra aver bisogno di punti e forme di appoggio: e qui sta e deve essere il gioco occidentale.
Il distacco e l’esercizio di forze che rendessero credibile la reazione potrebbe contribuire alla deterrenza.
Potrebbe anche avere un impatto sul modo in cui il regime cinese alloca le risorse nazionali, spingendolo a spendere di più in progetti infrastrutturali antieconomici e a investire maggiormente in settori della competizione militare (come la guerra sottomarina e la proiezione a lungo raggio) in cui è in ritardo e in cui il mondo libero potrebbe continuare a godere di un certo vantaggio.
Se gli Stati Uniti stanno riscoprendo, anche in forma truculenta, la marittimità del paese, gli altri paesi occidentali e soprattutto la UE non sono ancora consci delle priorità e della minaccia sul mare (gli Oceani sembrano lontani e l’Ucraina incombente, quasi si potesse scegliere e scadenzare le minacce…); tutto l’Occidente dovrebbe pensare a quali scelte ricorrere per invertire la tendenza, pensare a come scelte e priorità possano influenzare quella che probabilmente sarà una prolungata rivalità con la Cina.
Il controllo dell’Oceano Indiano può essere determinante per la deterrenza
Senza una concreta solidarietà occidentale armarsi o riarmarsi non serve a molto, e senza condivisione con gli Stati Uniti non c’è solidarietà, soprattutto non c’è credibilità, non c’è deterrenza, quanto mai necessaria nei confronti della Cina.
L’asse antioccidentale ha fallito un test importante, dove tutti, la Cina per prima, erano in agguato.
Malgrado tutto l’alleanza occidentale per antonomasia, la NATO si è mostrata viva e vegeta, e malgrado l’età e gli acciacchi sta meglio di qualsiasi alleanza, o potenziale alleanza opposta.
Non si può certamente dire chi e come opererà, soprattutto chi deve operare in Pacifico (e più ancora nell’Oceano Indiano), ma esiste una tradizione e un modello: …considerazioni spicciole e contingenti, sulle quali riflettere per generare soluzioni, sia lontane, che ci devono coinvolgere e vedere presenti sugli oceani, ma anche ci devono vedere vigili ed attivi a partire dal cortile di casa, anzi nei nostri mari e nei nostri porti.
Foto: China MoD / GIS / web / U.S. Navy
NOTA: il presente articolo è la sintesi di un esteso rapporto sulla marittimità e la ricerca del potere navale da parte della Cina, disponibile anche su https://independent.academia.edu/PoddigheGianCarlo/Analytics/
Source: difesaonline.it