L’ACM 80/90 (codice Fiat 6613 G) è stato uno dei primi articoli di successo proposti per Difesa Online, che ha fuso notizie, ma anche racconti di vita vissuta in quella spartana cabina di un automezzo che aveva davvero pochi, assoluti limiti. Conosciamo qualcosa di più.
Nato alla fine degli anni ’80 e ufficialmente consegnato a partire dal 1990, l’evoluzione Iveco ACM 80/90 è stata progettata e migliorata per rispondere ancor più alle esigenze militari di un veicolo tattico-logistico medio 4×4. Deriva dalla gamma civile (“Iveco 80‑16/90”) con componenti bivalenti alla produzione civile, per ottimizzare manutenzione e costi. Tuttavia, con le nuove esigenze emerse durante la Guerra del Golfo e nelle missioni balcaniche, vennero alla luce i suoi limiti fuori dal target europeo, obbligando la Difesa a richiedere un mezzo con capacità almeno doppie, maggiore efficienza nei trasferimenti e piena standardizzazione NATO.
È stato prodotto in più di tremila unità per l’Esercito e altri corpi dello Stato, e apprezzato anche all’estero.
Eurocargo: un parente stretto con vocazione commerciale
Se vogliamo proporre un’analisi più intuitiva che soddisfi gli appassionati, dovremmo ragionare per classi e incasellare l’ACM 80/90 nella fascia dell’Iveco Eurocargo, quello debuttato nel 1991. Infatti, Iveco Eurocargo ha esordito con una piattaforma modulare, tre motorizzazioni – 4 e 6 cilindri – e potenze a partire dai 116 ai 266 CV. Una piattaforma più performante, quindi, e una sorta di evoluzione commerciale di quella gloriosa dell’ACM 80. Solo con gli anni, Eurocargo si è fatto in tre, aggiornando le piattaforme – una piccola, una media e una grande – per venire incontro alle richieste del mercato. In buona sostanza, quella più vicina allo stereotipo “di camion” è la versione da 18 tonnellate di PTT, con motorizzazione Tector 7 e potenze da 250 a 324 CV, mentre l’ACM 80 si collocherebbe attualmente tra la serie piccola e media dell’Eurocargo.

ACTL: il salto di piattaforma che guarda alla NATO
Dopo il congedo operativo dell’ACM 80, e poi dell’80/90 (restyling), presente ancora nelle caserme, le direttive NATO hanno spinto per un cambio radicale di piattaforma, portando alla nascita dell’ACTL. Pare ci sia stato un primo timido tentativo di proporre un ACM 90 – visionato personalmente in versione blindata da Truck 4×4 DVD di Pozzani –, ma realizzato in pochi esemplari, probabilmente dieci, e sempre su base rinforzata derivata da Eurocargo. Certo, l’argomento non è molto chiaro e forse c’è qualche ombra, ma verrebbe da chiedersi perché si sia voluto investire parecchio denaro per un surrogato dello storico ACM 80 invece di passare subito alla piattaforma ASTRA, di gran lunga più performante.
Con l’ACTL, come accennato, il passaggio ha visto l’utilizzo di telai nettamente superiori, andando a selezionare Astra HD6 nelle versioni 4×4 e 6×6 e, addirittura, l’impiego della serie HD7 e 9 per le versioni 8×8 adibite ai trasporti eccezionali o speciali (es. carri armati). Ripercorrendo la storia, osserviamo che l’ACM era un mulo instancabile per la logistica territoriale, mentre l’ACTL è un sistema logistico integrato, più potente, più flessibile, progettato per i teatri operativi contemporanei e per la piena interoperabilità NATO.

L’ombra lunga della standardizzazione
Nel corso degli anni, la standardizzazione dei veicoli militari all’interno della NATO è diventata una priorità operativa, spinta da esigenze di interoperabilità logistica, riduzione dei costi e maggiore rapidità nei teatri multinazionali. Già a partire dagli anni ’90, dopo la Guerra del Golfo, fu chiaro che ogni Paese doveva poter condividere parti di ricambio, sistemi di carico, moduli e ganci di traino in modo uniforme, anche per evitare imbarazzi “diplomatici”.
Questo ha condizionato anche l’Italia, che si trovò nella necessità di abbandonare soluzioni su misura come l’ACM 80/90 per orientarsi verso piattaforme più allineate a un quadro europeo e allo STANAG NATO.
Veicoli comuni per missioni sempre più complesse
Non a caso, l’ACTL nasce come risposta a queste linee guida, con motorizzazioni più potenti, carichi raddoppiati, telai modulari e cabina anche a tre posti e trasportabile per via aerea. La piattaforma Astra HD – comune anche ad altri veicoli impiegati da Francia e Germania – garantisce infatti compatibilità nei convogli logistici misti e agli standard di manutenzione fuori area. Tuttavia, negli anni più recenti si assiste a un paradosso interessante: mentre la NATO spinge per l’uniformità, molti eserciti tornano a cercare una personalizzazione dei veicoli, soprattutto in ambito protetto o urbano. Alcuni modelli di nuova generazione (come i MAN HX – foto seguente -, i Renault Sherpa o i veicoli della serie Iveco MUV) tentano di mediare tra logica industriale e modularità tattica, offrendo veicoli “comuni ma adattabili” – una sorta di compromesso operativo. Infatti, National Defense Magazine e Fortune Business Insights confermano che, nonostante la spinta NATO verso l’uniformità, molti eserciti stanno tornando a richiedere veicoli personalizzabili, soprattutto in ambito urbano o protetto.

Dalla logistica tattica alla strategia industriale della difesa
Il passaggio dall’ACM all’ACTL rappresenta molto più di un semplice aggiornamento tecnologico: segna una discontinuità concettuale, il superamento del paradigma del camion essenziale, spartano, pensato per una logistica da retrovia, in favore di una piattaforma evoluta, progettata per integrarsi in scenari operativi complessi, multinazionali e ad alta mobilità. Un sistema modulare e versatile, frutto di scelte industriali e strategiche maturate ben oltre il solo ambito tecnico-militare.
Una trasformazione necessaria, certo, ma che molti conducenti – in particolare i veterani cresciuti con l’ACM – non hanno percepito come un miglioramento, bensì come l’inizio di una distanza culturale tra chi guida e chi progetta.
In questo contesto, il progressivo incremento della spesa per la difesa solleva interrogativi tutt’altro che retorici: stiamo rispondendo a un’autentica esigenza strategica o stiamo sostenendo, in modo più o meno consapevole, un comparto industriale nazionale che fatica a competere sui mercati civili?
Etichettare tutto ciò come “welfare industriale” può sembrare eccessivo – specie in un’epoca in cui altri settori vivono crisi strutturali – ma trascurare l’impatto economico, politico e simbolico di queste scelte significherebbe ignorare una parte fondamentale della posta in gioco.
L’ACM 80/90 apparteneva a un’epoca in cui il mezzo militare era prima di tutto uno strumento funzionale, concepito per durare, riparabile con poche risorse e accessibile per chi lo utilizzava sul campo.
Oggi, in un contesto europeo interdipendente e segnato da crisi a rapida evoluzione, si impone invece una difesa interoperabile, tecnologicamente avanzata e integrata nelle logiche multinazionali. Un cambiamento forse inevitabile, ma che impone una riflessione costante sul rapporto tra utilità operativa, strategia industriale e sostenibilità del sistema Paese.
Foto: autore / Samoborac / Rheinmetall Defence
Source: difesaonline.it