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Il bivio delle rivolte arabe

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di Cristiana Era
Le proteste egiziane e quelle siriane continuano ad attirare l’attenzione della comunità internazionale, la quale guarda agli eventi nel medio e vicino oriente con lo spirito romantico delle rivoluzioni europee. La “primavera araba”, come è stato ridefinito il susseguirsi delle proteste che hanno innescato violente repressioni in molti Paesi, in realtà dovrebbe essere considerata un insieme di eventi contingenti che andrebbero analizzati singolarmente, dovendo fare attenzione ai risvolti futuri in ambito politico e sociale, oltre che economico.
Il recente insediamento del nuovo Parlamento tunisino, il primo istituito con libere elezioni, e il rovesciamento di una dittatura è innegabilmente un risultato positivo delle manifestazioni del 2010. In occidente e nel resto dei paesi attraversati da agitazioni interne si guarda alla Tunisia come il punto di partenza e un esempio da seguire. Tuttavia, il cambiamento deve ancora mettere in evidenza la direzione che la Tunisia ha preso. La maggioranza parlamentare è dominata da un partito islamico moderato, l’Ennahda, ma vi sono timori che un’ideologia islamista più radicale possa prendere il sopravvento e cancellare quei diritti secolari che pure la precedente dittatura aveva garantito. E infatti sotto il governo di Zine El Abidine Ben Ali sono state emanate leggi progressiste in favore dei diritti delle donne, diritti che molte associazioni temono possano essere cancellati sotto un governo islamico. Così, nuove manifestazioni fuori dal Parlamento chiedono a gran voce che tali diritti vengano sanciti nella nuova costituzione. Altri chiedono la fine dell’influenza del Qatar nelle questioni interne al paese, dato che l’Ennahda avrebbe vinto la maggioranza dei seggi proprio grazie al governo di Doha.
Diverso è il contesto siriano, dove Bashar Al Assad non sembra disposto a farsi da parte, nonostante le pressioni internazionali e la recente sospensione della Siria dalla Lega Araba. Né le sanzioni imposte da Europa, Stati Uniti e – più recentemente – Lega Araba sembrano convincere Assad a concedere quelle riforme che pure aveva promesso. Secondo le stime ufficiali delle Nazioni Unite, da marzo ad oggi sono oltre 3500 le vittime degli scontri e della repressione militare, e all’orizzonte non si intravede una risoluzione a breve, anche perché a meno di divisioni interne la minoranza alawita, a cui appartiene la famiglia al Assad, controlla saldamente due settori cruciali per mantenere il controllo governativo: i servizi di intelligence e l’esercito, nonostante alcuni disertori abbiano dato vita al Free Syrian Army (libero esercito siriano) con base nel sud della Turchia. Se il fronte delle forze favorevoli al governo dovesse confermarsi unito gli scontri sfoceranno molto probabilmente in una guerra civile, a cui peraltro siamo già vicini. E la comunità internazionale? Russia e Cina per ora si oppongono a qualsiasi forma di intervento. Francia e Turchia hanno ventilato l’ipotesi della creazione di un corridoio umanitario (una replica di quanto già avvenuto in Libia). Gli Stati Uniti potrebbero fornire un supporto logistico indiretto ad un intervento da parte della Turchia. In realtà, un intervento ufficiale, anche se affiancato dall’aggettivo “umanitario” sembra improbabile nel breve periodo.  L’Europa e gli Stati Uniti sono alle prese con i problemi di politica (economica) interna a cui daranno priorità, e al contempo qualsiasi azione diretta nella regione mediorientale metterebbe a rischio i già fragili equilibri a meno di pensare che tale mossa non susciti una reazione del governo siriano, un’acquiescenza passiva da parte dell’Iran, e non abbia ripercussioni anche sulla pace precaria che UNIFIL cerca di mantenere in Libano, da sempre protettorato siriano. Oltre, naturalmente ad un effetto domino sull’annosa questione palestinese. In altre parole, se mai si dovesse arrivare ad un’azione in Siria, anche minima, questa dovrebbe – almeno formalmente – partire dai paesi arabi. E infatti, la Lega Araba ha annunciato sanzioni economiche contro Damasco lo scorso 27 novembre: una mossa senza precedenti, dato che per la prima volta la Lega  ha adottato contromisure nei confronti di un paese membro. Ci si chiede però se sia disposta ad andare oltre.
Anche in Egitto le proteste e gli scontri tra i civili e l’esercito non accennano a diminuire. Nello scenario egiziano, però, il governo è già stato rimosso, tuttavia al posto di Mubarak si è instaurata una giunta militare che riceve anch’essa pressioni da più parti affinché agevoli il ritorno ad un governo civile. Il 28 novembre 40 milioni di egiziani sono stati chiamati alle urne per eleggere democraticamente il primo Parlamento del dopo-Mubarak in un’atmosfera di scontro aperto, con i manifestanti che hanno continuato a presidiare piazza Tahrir, il simbolo della rivolta egiziana. La giunta militare ha annunciato le elezioni presidenziali per il giugno 2012, ma la data è lontana e la popolazione sembra più interessata a che i militari lascino subito il potere nelle mani di una autorità civile. La fluidità della situazione è evidente. Il nuovo Parlamento, anche se rappresenta un passo avanti, con molta probabilità non riuscirà ad assumere un ruolo determinante per la stabilizzazione dell’Egitto; infatti non avrà il potere di far dimettere il governo dei Generali in favore di uno civile. Washigton, da sempre sponsor dell’esercito egiziano, che ha salvaguardato gli interessi statunitensi nel passato, ha accennato di voler ritirare il proprio appoggio se la giunta non si fa da parte, ma il comunicato della Casa Bianca non è molto incisivo e sembra poco convincente. Così, elezioni a parte, la situazione resta precaria. Eliminare il governo forte di Mubarak non ha comportato automaticamente la capacità per il paese di muovere verso una soluzione a breve di stabilità governativa che implica, tra l’altro, l’esistenza di un apparato istituzionale a suo sostegno. L’unica istituzione stabile, paradossalmente, è proprio l’esercito che mantiene in piedi l’apparato autoritario di Mubarak e tutta la sua elite. E’ stato eliminato il dittatore, ma non il sistema che lo manteneva al potere. Si dovranno aspettare i risultati del voto elettorale e gli sviluppi dei prossimi mesi per avere indicazioni più chiare sulla strada che l’Egitto prenderà. Ma se risulteranno confermati i dati attuali sulle votazioni, secondo i quali i partiti islamisti, grazie ad una migliore organizzazione, avrebbero ottenuto ben oltre la maggioranza (si parla di un ipotetico 40% per i Fratelli Musulmani e di un altro 25% del partito radicale salafita), allora ci potrebbero essere degli sviluppi imprevedibili e potremmo assistere ad un nuovo confronto tra gli islamisti e le forze laiche e liberali che per evitare un governo di stampo islamico potrebbero spostarsi verso destra.
Altrettanto può dirsi per quanto riguarda la situazione in Libia e in Yemen. Gheddafi è stato rimosso, ma i gruppi di opposizione, finita la lotta armata, si ritrovano divisi e fanno fatica a creare un governo di unità nazionale. A Sana’a, il Presidente Ali Abdullah Saleh, dopo le agitazioni sfociate in rivolta, ha annunciato di accettare di porre fine ai 33 anni di governo, ma i leader dei movimenti di protesta chiedono un cambiamento dell’intero sistema che mantiene al suo posto l’elite, compresi i membri della famiglia Saleh. In Yemen la crisi politica degli ultimi 10 mesi crea anche problemi più immediati, data la presenza di gruppi appartenenti ad Al-Qaida che cercano di sfruttare al meglio il vuoto politico. E questo non può non allarmare i paesi occidentali, in particolare gli Stati Uniti che in Yemen stanno conducendo azioni antiterrorismo proprio contro le cellule di Al-Qaida. Quindi, le sanzioni minacciate da più parti contro l’ex alleato degli americani, sono diventate necessarie per cercare di porre fine alla crisi che minaccia la sicurezza.
In conclusione, è chiaro che le agitazioni che stanno attraversando alcuni paesi arabi rischiano di creare instabilità in aree dove gli equilibri sono precari. Gli interventi della comunità internazionale, ad eccezione del caso libico, sono attualmente limitati alle sanzioni economiche. Altri tipi di azione, compresa quella diretta, rischiano di far precipitare gli eventi, considerato che le popolazioni arabe hanno fatto capire di non gradire tale ipotesi. E poi, anche in caso di scelte più incisive, la comunità internazionale dovrebbe interrogarsi su come intervenire in modo legittimo e su dove intervenire: in Siria piuttosto che in Egitto o in Yemen, con il rischio di coinvolgere il Libano di Hezbollah? Oppure in tutti e tre i paesi? E chi dovrebbe pagarne il costo, data la crisi economica che ha colpito un po’ tutti? E poi ci sarebbero i costi politici interni ai singoli Stati che eventualmente decidessero di intervenire. E i risultati non sarebbero comunque scontati.  Vero è che lo scenario mediorientale va monitorato attentamente. In occidente abbiamo la tendenza a salutare la protesta delle masse come indicatore di una volontà di cambiamento in senso democratico. Ma quando si parla di Primavera araba dobbiamo capirci bene sul suo significato. Primavera nel senso di rinascita, ma non necessariamente rinascita democratica. Se con primavera si intende un risveglio del mondo arabo, allora la definizione è corretta, ma a patto di non confonderla con un risveglio di una democrazia che in questa regione del globo storicamente non è mai esistita. Quale sviluppi ci saranno in futuro è difficile da pronosticare. Ogni paese arabo coinvolto nelle proteste ha un proprio retaggio storico, politico e sociale, con la presenza di gruppi tribali concorrenti, nascenti movimenti politici, infiltrazioni terroristiche e retaggi culturali (o religiosi se si preferisce) che spesso contrastano con i principi di libertà e di democrazia. Di conseguenza, le soluzioni non saranno uguali per tutti. La Tunisia non è l’Egitto, e lo Yemen non è la Libia o la Siria. L’elemento in comune, semmai, è la possibilità che gruppi religiosi radicali riescano a prendere il sopravvento e che si possa assistere all’instaurazione di regimi islamici grazie al vuoto politico, o anche grazie agli stessi meccanismi democratici che possono portarli al potere.

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