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Lost in transition - Versione Italiana

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Lost in transition
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Sei mesi fa Karzai ha annunciato l’inizio della prima fase della transizione, il graduale passaggio di responsabilità sulla sicurezza dalle forze ISAF alle forze nazionali afghane (ANSF), segnando così un lento ma costante ritiro della presenza militare internazionale. A causa di problemi economici e questioni politiche interne, gli Stati Uniti sono ansiosi di riportare a casa le proprie truppe dall’Afghanistan entro il 2014. E a quella data anche la missione ISAF avrà termine, restituendo al Paese la piena sovranità. Se sarà pronto a reggersi sulle proprie gambe è però un’altra questione.
Anche se l’Afghanistan ha avviato la seconda fase della transizione alla fine del novembre scorso, pochi sarebbero d’accordo sul successo della fase precedente. A partire da luglio, in varie regioni si sono verificati una serie di esplosioni di ordigni improvvisati (IED) e di attacchi terroristici. Ma al fine di minimizzare un accresciuto potere degli insorti, l’impennata di violenza è stata prontamente definita come un colpo di coda dei talebani, a riprova di un controllo che va diminuendo sul territorio. Al contrario, per molti analisti questo è un segno evidente di una rinnovata capacità combattiva, che ha raggiunto il suo massimo livello con l’uccisione del capo dell’Alto Consiglio per la Pace ed ex Presidente dell’Afghanistan, Burhanuddin Rabbani, lo scorso 20 settembre. Si tratta dell’ultimo episodio di una serie di omicidi di alte personalità politiche che hanno colpito l’Afghanistan nel corso della transizione, e che a sua volta era stato preceduto dall’attacco alle sedi della NATO e dell’Ambasciata USA a Kabul, avvenuto una settimana prima, e poi seguito dalla strage del giorno dell’ashura nelle città di Kabul, Kandahar e Mazar-i-Sharif, all’indomani della Conferenza di Bonn sull’Afghanistan.
Nonostante un intensificarsi dell’impegno di ISAF nell’addestrare, guidare ed equipaggiare le Forze Afghane, l’obiettivo per il 2014 di creare una struttura di sicurezza indipendente ed efficace sembra lontano. Invero, Kabul ha appoggiato gli sforzi per incrementare l’arruolamento tra la popolazione, cercando di legare l’immagine dell’ANSF al senso di orgoglio e di onore, valori molto radicati nella cultura afghana. Il numero degli arruolati nell’ANSF ha attualmente superato le 300 mila unità, ma la quantità purtroppo non va di pari passo con la qualità. Il livello di alfabetizzazione tra i militari non supera il 14% ed anche se sia il Governo che le forze della Coalizione hanno messo in piedi appositi corsi obbligatori, occorrerà una intera generazione prima che l’Afghanistan possa avere un esercito e una polizia pienamente operativi e in grado di svolgere tutte le funzioni che il ruolo richiede. La corruzione estremamente diffusa, il ricorso alle tangenti e l’uso di droghe sono tra i problemi principali delle forze di sicurezza, problemi che Karzai non è stato in grado di ridurre in modo significativo e nonostante le molte dichiarazioni volte a rassicurare la comunità internazionale sull’efficacia delle politiche governative.
La NATO e la comunità internazionale continuano a decantare i successi dei programmi di addestramento sottolineando i risultati positivi delle operazioni condotte dall’ANSF, ma la realtà è che nella maggior parte dei casi quelle operazioni non sarebbero state possibili senza l’apporto fondamentale delle truppe ISAF. Di conseguenza vi è una ridotta capacità operativa, di cui sia la popolazione che gli insorti sono ben consapevoli. Nel caso dei cittadini, il risultato è un livello bassissimo di fiducia nell’efficienza e nella legittimità stessa delle forze di sicurezza. Nel caso degli insorti, i gruppi terroristici sfruttano questa debolezza ricorrendo sia ad un numero maggiore di attacchi contro i rappresentanti governativi e le istituzioni, sia ad una propaganda politica volta a gettare discredito sulla legittimità del Governo, presentandosi come l’unica forza in grado di ristabilire la sicurezza. In tal modo, la percezione degli afghani sull’incapacità delle forze regolari di proteggerli in modo adeguato aiuta i talebani a riguadagnare gradualmente l’appoggio della popolazione. Anche il tempo gioca a loro favore, e dopo il ritiro delle truppe NATO sarà più facile riguadagnare le posizioni perdute. Alcuni analisti ipotizzano che diversi insorti abbiano adottato la tattica di arrendersi e di unirsi al processo di pace, in modo da guadagnare tempo per potersi riorganizzare e sfruttare a proprio vantaggio le risorse che la comunità internazionale mette a disposizione per il loro reintegro nella comunità. L’attuale deficit di sicurezza, insieme ad un fragile sistema giudiziario e alla mancanza di uno stato di diritto in molte province e distretti, pone un punto interrogativo non solo sulle possibilità di successo della transizione della responsabilità alle forze di sicurezza, ma – ancor peggio – sulla transizione e consolidamento dell’intero processo democratico in atto in Afghanistan. Come hanno argomentato Juan Linz e Alfred Stepan in uno studio del 1996 sulla transizione e il consolidamento democratico, le libere elezioni sono certamente una condizione necessaria per lo sviluppo di una democrazia. Ma essi mettono in guardia contro quello che definiscono “l’inganno elettorale”, ossia il concetto che le libere elezioni siano condizione sufficiente per la sopravvivenza della democrazia in assenza di un controllo della forza da parte del Governo legittimo, di uno stato di diritto, della protezione dei diritti per tutti, incluse le minoranze (nel caso afghano i diritti delle donne e dei gruppi etnici diversi dai Pashtun e dai Tagiki), e di un effettivo accordo di tutte le parti su una risoluzione pacifica del conflitto.
Le conclusioni della Conferenza di Bonn del 5 dicembre scorso hanno indirettamente confermato che il fragile sistema economico e politico afghano non sopravvivrà dopo il 2014 senza un continuo appoggio della comunità internazionale. In altre parole, un ingente apporto finanziario sarà ancora necessario per evitare il collasso dell’economia e delle istituzioni politiche. Ma la ragione primaria del ritiro delle truppe internazionali è proprio la volontà del maggior contribuente, gli Stati Uniti, di interrompere il troppo generoso flusso di aiuti all’Afghanistan – quantificati in 7 miliardi di dollari al mese – che cominciano a pesare su un’economia americana in difficoltà. Anche gli altri membri della coalizione sono alle prese con problemi economici interni e cercheranno a loro volta di ridurre il proprio contributo. Inoltre, con tutta probabilità anche gli investimenti stranieri subiranno una drastica riduzione in presenza di un ambiente in cui non sono garantite le necessarie condizioni di sicurezza, con effetti negativi sullo sviluppo delle infrastrutture e sullo sfruttamento delle risorse naturali.
Pertanto, sarà assai improbabile che la fine della transizione e l’inizio del cosiddetto “Decennio del Cambiamento” (Transformation Decade), che va dal 2015 al 2024, segni il passaggio ad un sistema democratico consolidato e  ad un Paese autonomo con una “crescita sostenibile ed equa” come previsto nelle conclusioni della Conferenza di Bonn. Il rinnovato impegno a fornire appoggio allo sviluppo economico e alla sicurezza, insieme al supporto alle priorità di Kabul in campo amministrativo, dello stato di diritto, dell’istruzione, della salute e delle infrastrutture, rischia di restare poco più di una dichiarazione di intenti, con la conseguenza di mettere in evidenza il fallimento della politica di stabilizzazione della comunità internazionale in Afghanistan. E la mancata conquista “dei cuori e delle menti” della popolazione afghana.
 


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