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Il processo di reintegrazione in Afghanistan: verso la pacificazione?

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di Cristiana Era
Dopo oltre un trentennio di guerra che ha messo in ginocchio l’intero Paese, l’Afghanistan sta faticosamente cercando di riemergere e di riacquistare una stabilità interna che ancora stenta a radicarsi nonostante un supporto costante, sia economico che militare, della comunità internazionale. La stabilità passa innanzitutto attraverso la sicurezza, ovvero la restaurazione di un sistema legale rispettato e condiviso da tutti e dall’assenza di condizioni di violenza che impediscono alla società di organizzarsi in piena libertà, alla politica di governare senza pressioni, all’economia di riprendere le attività produttive e al singolo cittadino di vivere in condizioni di normalità. Ma la violenza, che ancora affligge in modo significativo l’Afghanistan, può cessare se una delle parti in lotta viene annientata oppure se viene riassorbita all’interno della comunità. In quest’ultimo caso si parla di pacificazione, che spiana la via alla ricostruzione e alla compartecipazione alla “res publica”. Proprio per questa necessità, il governo Karzai nel 2010 ha creato un programma di reintegrazione dei talebani, il cosiddetto  Afghan Peace and Reintegration Program (APRP).  Il programma è sotto la diretta responsabilità del Presidente, e l’High Peace Council svolge un compito di consulenza e di coordinamento.
 
Talebani 
 
L’APRP è stato disegnato in modo da offrire a chi decide di deporre le armi l’opportunità di essere reintegrato nella propria comunità di appartenenza, ottenendo il perdono e la grazia pur salvaguardando l’onore, che in Afghanistan rappresenta uno dei pilastri della cultura tribale. L’intero programma prevede tre fasi: il contatto con gli insorti, la smobilitazione e il consolidamento della pacificazione. Inizialmente i leader locali dovrebbero contattare i combattenti, ascoltare le loro rimostranze e cercare di convincerli a deporre le armi. Nella seconda fase, dopo aver ufficialmente dichiarato di rinunciare alla violenza gli ex combattenti verrebbero riammessi nella società e nella comunità di appartenenza. Le loro armi vengono registrate e poi restituite. Il terzo punto, quello che dovrebbe dare forza all’intero programma e garantire che la pacificazione diventi effettiva, implica l’attuazione di progetti riguardanti sia gli ex combattenti reintegrati che le comunità che li accolgono: si tratta di progetti di formazione professionale, di istruzione, di creazione di posti di lavoro, e di cooperazione allo sviluppo. Il programma è dunque concepito in modo da incoraggiare le defezioni  da parte di coloro che si sono uniti ai talebani per mancanza di lavoro o altri mezzi di sostentamento. Allo stesso tempo, garantisce dei benefici anche per l’intera comunità con progetti ritagliati su misura a seconda delle necessità del singolo villaggio o distretto. 
Nei primi sei mesi del 2011, il numero di coloro che hanno deposto le armi e si sono dichiarati disposti ad appoggiare il processo di pace è aumentato in maniera significativa, promuovendo l’immagine di un Governo impegnato nella ricostruzione e nella stabilizzazione della nazione, grazie anche al supporto dei media governativi che hanno dato ampio risalto alle cerimonie di reintegrazione nelle varie province. Tuttavia, ben presto il programma ha subito un ridimensionamento. L’APRP, infatti,  prevede la presenza di una struttura articolata di enti a livello locale con il compito di supervisionare la reintegrazione e dare attuazione alla seconda e terza fase, quella della registrazione e di realizzazione dei progetti di cooperazione allo sviluppo. Ma questi enti non sono ancora presenti in tutti i distretti e in tutte le province, con un conseguente rallentamento del processo sul quale invece dovrebbe concentrarsi un’azione governativa rapida ed incisiva. 
 
 Talebani
 
La buona riuscita dell’APRP è comunque un elemento fondamentale per la transizione e per uno sviluppo costante e sostenibile dell’Afghanistan. Ma l’uccisione del Presidente dell’High Peace Council, Burhanuddin Rabbani, avvenuta lo scorso 20 settembre rischia di rinfiammare gli animi e di annullare i piccoli progressi faticosamente raggiunti fino ad ora. Ne sembra consapevole anche l’amministrazione Obama che lo scorso anno ha avviato una politica di negoziazione con i talebani. L’idea dei negoziati e del reinserimento dei talebani nella vita sociale e politica dell’Afghanistan non ha ricevuto consenso unanime all’interno delle forze governative e dall’opposizione. Il termine ultimo del 2014 come data del ritiro definitivo delle truppe NATO indica chiaramente la fretta degli Stati Uniti di porre termine ad una guerra che non riescono a vincere e che allo stesso tempo non vogliono più sostenere, finanziariamente e politicamente. L’impressione di alcuni analisti è che comunque si cerchi quanto meno di non perderla. Portare i talebani ad un tavolo dei negoziati non è cosa da poco, ma all’amministrazione americana sembra al momento l’unica soluzione che permetta il disimpegno e pacifichi il Paese. Karzai però non vede di buon occhio questi approcci verso i talebani, in primo luogo per i motivi interni già indicati, e secondariamente perché Kabul è stata per lo più tagliata fuori dalle iniziative americane. La recente decisione di aprire un ufficio politico in Qatar, a mo’ di rappresentanza ufficiale per eventuali negoziati di pace, è stata interpretata come un’apertura importante nell’atteggiamento intransigente dei talebani. 
E tuttavia va sottolineato come ad oggi non vi sono molti segnali che indichino una effettiva volontà di abbandonare la lotta armata e di entrare a far parte del sistema di governo attualmente in vigore in Afghanistan. Vediamo perché. Dal punto di vista interno, l’APRP non è ancora sufficientemente strutturato per poter incidere in maniera significativa sul processo di pace. Le promesse di reinserimento nella struttura economica e sociale della comunità sono state disattese per molti ex combattenti, e taluni hanno dichiarato di voler tornare a combattere con gli insorti. Alcuni leader talebani hanno effettivamente deposto le armi e sono stati pienamente reinseriti nella vita politica del Paese, ma molti temono che questa disponibilità a sostenere il processo di pace sia un modo per infiltrarsi tra le istituzioni e facilitare il ritorno al potere del movimento dopo il ritiro delle forze internazionali. Le circostanze che hanno portato all’eliminazione di Rabbani, ucciso durante un incontro con un presunto leader talebano che aveva dichiarato di voler collaborare con il GIRoA, parrebbero sostenere questa ipotesi. Nel frattempo, i talebani hanno richiesto agli Stati Uniti il rilascio dei leader detenuti a Guantanamo ma hanno precisato che l’eventuale avvio dei negoziati non significherebbe la fine degli scontri. E infatti gli attentati contro le forze ISAF e le personalità politiche afghane che con esse collaborano si susseguono con ritmo costante e gli IED (improvised explosive device) continuano a mietere vittime fra i militari e i civili afghani. Le roccaforti del movimento Haqqani non sono state smantellate, anche grazie alla protezione dell’intelligence pakistana, e la leadership di Quetta non ha rinunciato all’obiettivo di riconquistare il potere. Infine, è del 23 gennaio scorso la notizia apparsa sui quotidiani statunitensi che un rapporto segreto dell’intelligence americana confermerebbe la situazione di stallo in Afghanistan, in contrasto con le dichiarazioni ottimistiche del Pentagono. Il rapporto (il National Intelligence Estimate on Afghanistan), stilato dalla CIA e da altre 15 agenzie di intelligence, rivelerebbe che i successi ottenuti dalle forze internazionali non sarebbero stati sufficienti a indebolire la volontà di continuare i combattimenti da parte degli insorti e a scardinare un livello preoccupante di corruzione, oltre che una presenza governativa debole sul territorio e una generale mancanza di fiducia degli afghani nel GIRoA. 
Alla luce di queste considerazioni, e di fronte alla constatazione di un processo di consolidamento istituzionale ancora estremamente fragile, vi è da più parti la sensazione che le forze talebane stiano cercando di riorganizzarsi aspettando l’annunciato ritiro di ISAF, sapendo che il tempo gioca a loro favore e che Karzai e le forze di sicurezza nazionali non riusciranno a mantenere il controllo sul territorio e sulla popolazione. Nei prossimi due anni il governo afghano dovrà cercare di rendere più incisivo l’APRP, e gli Stati Uniti dovranno trovare le leve e gli interlocutori giusti per riuscire ad avviare dei negoziati di pace, se la pacificazione vuole avere qualche speranza di successo. In questo momento l’impresa sembra alquanto difficile, ma come hanno sottolineato alcuni alti funzionari americani, non vi sono motivi per non provarci.
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