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Il mondo multipolare e i conflitti contemporanei

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di Cristiana Era
Nel vortice dei cambiamenti che da un ventennio a questa parte stanno periodicamente caratterizzando lo scenario politico internazionale, ci troviamo di fronte ad uno scacchiere mondiale frammentato e, diciamolo pure, estremamente confuso. Il mondo multipolare, che ha soppiantato la contrapposizione fra due blocchi e che fu inizialmente salutato con entusiasmo frettoloso e superficiale, sta rivelando a tutti – ma in particolar modo al mondo occidentale – le sua natura poliedrica. Le sue molteplici sfaccettature non hanno tutte quante dei risvolti positivi. La disintegrazione del bipolarismo in più elementi autonomi se non addirittura indipendenti, l’attenuarsi del potere di influenza su vaste regioni e una diminuita capacità, sia russa che americana, di riuscire a trovare tutte le risorse necessarie a coprire gli interessi nazionali in tutto il globo, hanno liberato forze nuove, creato nuovi attori non statali, e dato definitiva affermazione sia in ambito giuridico che nella prassi, alle organizzazioni internazionali, le sole ormai che possono legittimare gli interventi in aree di crisi.
Quando la minaccia comune viene improvvisamente – o quasi – a mancare, il bisogno di sicurezza non è più primario ed emergono altri interessi all’interno di un blocco. Le alleanze si allentano e il fronte a cui può guardare ogni singolo Stato per meglio salvaguardare gli interessi nazionali si allarga. Nascono nuovi attriti in aree prima sotto controllo o, se si preferisce, sotto una determinata sfera di influenza che impediva a terzi di accedervi politicamente o economicamente. Ma le restrizioni dei blocchi sono cadute non solamente da un punto di vista strettamente politico od economico, ma anche dal punto di vista ideologico e culturale. In un sistema multipolare, le opportunità e gli interscambi aumentano, le relazioni non sono più solamente istituzionali ma coinvolgono le società, in questo aiutate dalle nuove tecnologie. E i cambiamenti all’interno delle società possono diventare fattori di instabilità in alcune aree, come ci hanno ricordato in quest’ultimo anno i movimenti popolari in molti Paesi arabi.
Quello che appare evidente nel nuovo secolo è non solo la disintegrazione di blocchi monolitici, ma anche e soprattutto l’affievolimento dello Stato nazione come struttura unitaria. E se da un lato i Paesi occidentali ancora resistono da questo punto di vista, in molti altri le nuove forze disgregatrici minacciano l’unità nazionale e territoriale. Che si tratti di legittime rivendicazioni democratiche, di infiltrazioni straniere di natura terroristica, o di ancestrali rivalità tribali, poco importa. In Afghanistan le pressioni etniche sono tenute sotto controllo solo dalla presenza internazionale, ma riesploderanno subito dopo il ritiro, invero poco glorioso, delle forze ISAF. Ad esse si aggiungeranno le interferenze degli Stati vicini: Pakistan, Cina, Iran e India. E’ possibile, inoltre, che le rivalità di questi quattro attori possano far nascere altre situazioni conflittuali destabilizzanti in Asia. In Libano, da sempre territorio di scontro degli interessi dei Paesi confinanti, si vive in un equilibrio precario che può saltare dal un momento all’altro, con il rischio di incendiare l’intera area. Se a questo si aggiunge la questione palestinese, la guerra civile in Siria, un Iraq ancora alle prese con la pacificazione e uno Yemen che sta diventando la nuova base operativa di al qaida, si ha la sensazione di guardare una polveriera che sta per esplodere. Dal Medio Oriente  all’Africa. L’Egitto è in fermento: anche qui i poteri forti vengono sfidati dalle rivendicazioni dal basso. In Libia la caduta del regime di Gheddafi ha prodotto al momento solo caos, manca un governo e i gruppi radicali legati al terrorismo combattono per il potere esattamente come i gruppi tribali che non riescono a trovare un accordo su un governo unitario. Il Sudan è ancora alle prese con una guerra interna dopo la secessione del sud. L’Africa sahariana (dalla Nigeria al Mali, dall’Algeria al Marocco, dalla Mauritania al Chad) deve fare i conti con le nuove minacce terroristiche dell’AQMI (Al-Qaida nel Maghreb Islamico) che sfrutta le condizioni di sottosviluppo e malcontento locale per fare presa sulla popolazione e diffondere i principi dell’Islam più radicale. In bilico è la questione dei Tuareg, che da sempre rivendicano maggiori diritti e ambiscono ad una secessione (nominalmente già avvenuta) dal Mali. Ancora non è chiaro se i Tuareg si appoggeranno ai terroristi o meno, ma la questione ha sollevato le preoccupazioni degli Stati confinanti ed è anche attentamente monitorata dagli Stati Uniti.
Rispetto al passato le conflittualità in atto e quelle potenziali sono differenti non solamente per la diffusione (conflitti più piccoli ma più elevati di numero) ma anche per la loro natura. Le questioni sociali e culturali contribuiscono ad acuire gli attriti. Ecco perché quando la comunità internazionale interviene deve farlo con criteri diversi e con una sempre maggiore attenzione alla geografia, alla presenza di più etnie e di più religioni (dovremmo dire “sensibilità religiose”), alla cultura locale. Il conflitto cambia: l’appoggio della popolazione diventa fondamentale. Accanto ai mezzi corazzati, alla logistica, alle armi e agli aspetti tradizionali della strategia militare, la pianificazione deve necessariamente tener conto degli studi sulla popolazione e sulla sua cultura. Il sostegno dei locali diventa di fatto di importanza strategica perché integra l’azione di intelligence, garantisce rischi minori per le forze internazionali schierate, diminuisce la capacita di reclutamento della parte avversa, facilita la condotta delle operazioni, diminuisce il numero di incidenti sui civili che possano avere un impatto mediatico negativo, non solo localmente ma anche all’interno degli Stati che partecipano alla coalizione internazionale, soprattutto in quelli democratici dove l’opinione pubblica può influenzare l’entità e le modalità del contributo delle proprie Forze Armate.  Infine, un rapporto di collaborazione rende più facile il ristabilimento delle condizioni di sicurezza generali e la stabilizzazione interna. Su questi presupposti si basano le azioni di quella che una volta gli americani chiamavano “guerra psicologica” e che oggi prendono il nome di psychological operations (psyops). Vi lavorano nuclei specializzati che in base allo studio della popolazione, o di settori di essa, elaborano campagne di comunicazione che puntano sulle necessità e sui bisogni locali per lanciare messaggi incisivi contro gli avversari e/o a sostegno delle autorità riconosciute come legittime. In alcuni Paesi, come gli Stati Uniti, il psyops è una dottrina già ampiamente sviluppata e le loro unità sono considerate parte delle Forze Speciali. L’Italia ha sviluppato da poco questo nuovo assetto tattico che è ancora in fase di sviluppo. Alla parte psyops, si affianca uno degli elementi che da anni caratterizza le missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, e non solo di quelle: la collaborazione della forza internazionale con i civili a favore della ricostruzione. E’ la sapiente opera del CIMIC, la cellula per la collaborazione civile-militare. E’ quella che più di tutte le altre lavora sul terreno per progetti di sviluppo di immediato impatto sulla popolazione e quindi con le più alte potenzialità in termini di supporto e di raccolta dati. E se molti sostengono che il CIMIC non è intelligence, sicuramente si può affermare che il CIMIC è “anche” intelligence, o comunque un elemento complementare da non sottovalutare.
La globalizzazione ha modificato i confini in termini reali e virtuali, ha fatto emergere altri attori sulla scena internazionale, ha promosso la definitiva affermazione degli interventi a difesa della sicurezza collettiva, creando nuove tipologie di conflitto: il termine guerra è accuratamente evitato dai decision makers di molti Paesi per motivi politici interni. Si parla di missioni peace-keeping, peace-making, peace-building, peace-enforcement: il termine “pace” rientra in tutte le definizioni, e quando non si può, si ricorre ad altra terminologia con eguale impatto psicologico positivo (ad esempio i cosiddetti “interventi umanitari”). Ma è pur vero che l’attenzione a livello internazionale su alcuni aspetti fondamentali dei conflitti e la necessità di ridurre al minimo le perdite hanno dato nuovo impulso a quelli che definirei “metodi di combattimento alternativi”. Prendendo a prestito una massima ampiamente sfruttata e abusata di Sun Tzu, “ottenere cento vittorie in cento combattimenti non richiede una grande abilità, la grande abilità consiste nello sconfiggere il nemico senza lottare”.

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