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Anno nuovo: sempre più giù il ceto medio

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di Gino Falleri
Anno nuovo, vita nuova. Così afferma un vecchio proverbio ed i proverbi sono considerati pillole di saggezza popolare. Quale sarà questa vita nuova se lo stanno chiedendo in molti, contribuenti in testa, alle prese come sono con non poche difficoltà e con lo spettro incombente della povertà. Soprattutto in considerazione dell’introduzione di nuove e pesanti tasse, addizionali varie ed aumento dei bolli e delle accise, con l’aggiunta della previsione che la pressione fiscale nell’anno 2013 salirà oltre il 45 per cento - per quello successivo è già in calendario una manovra da 40 miliardi di euro - e un debito pubblico pressoché inarrestabile. Oltre duemila miliardi.
Nel nuovo anno faranno la comparsa ulteriori tasse. Tobin tax, Ivie e Tares, quest’ultima colpirà ancora i possessori di abitazioni dopo l’Imu mentre si sussurra sul probabile varo di una patrimoniale sulla prima casa che la sinistra vorrebbe introdurre se vincerà le elezioni. Un altro colpo al ceto medio. Tutto questo per il nostro bene, che porterà purtroppo ad ulteriori contrazioni dei posti di lavoro. La disoccupazione è oramai giunta a livelli di guardia e di preoccupazione sociale. 
Nel mese di ottobre, secondo i dati Istat, era attestata a circa 2.900.000 unità, nell’Unione siamo sui 20 milioni, e non esiste, allo stato attuale, alcun segno di una inversione di tendenza. Anzi, le analisi internazionali non sono ottimistiche. Il Pil scenderà ancora e quando scende il Pil il benessere si contrae. Meno risorse da distribuire.
A cavallo degli anni Sessanta e Settanta dell’altro secolo, quando il repubblicano Ugo La Malfa incominciava a richiamare l’attenzione sui conti pubblici, aveva non poco seguito un programma di approfondimento della Rai, curato da Gastone Favero recentemente scomparso, che si interrogava su cosa potesse esserci dietro l’angolo. Si cercava attraverso gl’interventi degli esperti di conoscere quale potesse essere il futuro. Quali sorprese riservasse. 
La stessa cosa cercano di fare come accennato gl’italiani di oggi. Se non altro perché hanno ritenuto, in buona fede, che un governo di tecnici, non legato agli ondivaghi  programmi dei partiti ed apprezzato dalle autorità di Bruxelles, avesse la capacità di risolvere più di un problema. A cominciare dal drastico taglio della spesa pubblica, che è la vera palla al piede per la crescita, dalla riduzione degli interventi di una farraginosa burocrazia ed a seguire dall’azzeramento dell’attuale modello di finanziamento ai partiti. Siamo nell’Unione europea e di conseguenza dovremmo guardare ad essa ed ai migliori modelli.
 
Seguire le sue regole. I politici di professione hanno fatto il loro tempo e largo ai giovani. 
Tutto questo, al di là della buona volontà e di una indiscussa risalita dell’immagine presso la comunità internazionale, non è stato realizzato. Alla stessa maniera dell’ultimo governo guidato da Berlusconi, che pur avendo una larghissima maggioranza, non ha risolto niente. Eccellenti discorsi, grandi promesse. Senza alcun seguito. 
Ora il fatto su cui si sta soffermando la gente comune, prospettato nel corso della conferenza stampa di fine anno, è la posizione che ha assunto e vuole assumere il presidente del Consiglio dei ministri, dopo le dimissioni presentate al presidente della Repubblica in risposta all’intervento di Alfano. Il segretario del Pdl aveva ritenuto di dover elencare gli elementi non positivi di un anno di governo. Ha così presentato una sua “agenda”, ha posto condizioni sulla composizione della lista dei candidati della coalizione che lo apprezza e lo pone alla sua guida e si è infine dichiarato disposto a guidarla in caso di vittoria, senza il vaglio del corpo elettorale. La storia repubblicana non ha alcun precedente.
Il 2013 sarà l’anno in cui i cittadini saranno chiamati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento e con esso il governo che dovrebbe ridare fiducia e speranza. Un governo politico, sia di destra che di sinistra (le previsioni danno per scontata la vittoria di Bersani, il quale potrà così continuare nella politica delle liberalizzazioni), che faccia prevalere innanzitutto l’equità sociale, sollecitata dal presidente della Repubblica, e l’assoluto rispetto dell’articolo 53 della Costituzione: quello che stabilisce che tutti sono tenuti, “quindi nessuno escluso”, a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. 
Il richiamo alla Costituzione ha una sua ragione. Nelle passate settimane sono circolate voci sulla sanità pubblica e sulla inarrestabile crescita dei suoi costi. La salute è un diritto riconosciuto a tutti i cittadini, sia poveri che abbienti. Infatti la Repubblica “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Questa affermazione, legata all’articolo 53, non dovrebbe significare che un cittadino ben dotato economicamente debba pagare tasse altissime sul suo reddito e curarsi inoltre a proprie spese. Non collimerebbe con l’articolo 3. Ci sono già i tiket e potrebbe pure esserci l’effetto Depardieu. Si può aggiungere, come riporta “Il Fatto Quotidiano”, che i nostri rappresentanti al Senato “hanno rafforzato il presidio dell’ambulatorio”. Hanno aperto la selezione per l’acquisizione di specialisti in cardiologia e in anestesia e rianimazione.
Sarebbe una anomalia, una delle tante che la classe politica succedutasi nel tempo in Parlamento ha creato. Rare sono state le visioni d’insieme. La storia dal 1861 può fornire più di un esempio. Per averne idea è sufficiente dare una scorsa all’ultimo libro di Giovanni Fasanella: “Intrighi d’Italia”. I nostri rappresentanti hanno inoltre creato quel modello fiscale che trita tutti e indaga su ogni nostra singola spesa, con l’inversione della prova. E’ sufficiente il ritardo di un giorno o una piccola imprecisione per vedersi applicare iperboliche sanzioni. 
La società si sta trasformando sia nelle esigenze che nei costumi. Forse potrebbe essere utile abbozzare, ad oltre sessanta anni dall’approvazione della Costituzione, una riflessione sulla sovranità e sulla rappresentanza, che è senza vincolo di mandato, una specie di legibus solutus per appartenenza e decisioni. La legge si evolve nel tempo e nello spazio. Si potrebbe immaginare o prospettare qualcosa di nuovo, più aderente agli interessi dei cittadini. I soldi pubblici dovrebbero innanzitutto essere considerati “sacri” e non impiegati in opere che restano incompiute. Quindi non dimenticare il principio della responsabilità.
Da noi l’informazione è un diritto di preminente interesse pubblico. Il giornalista assolve un ruolo sociale nella società contemporanea ed è considerato terzo. Così affermano le carte dei doveri. Tuttavia la realtà quotidiana qualche un interrogativo lo suscita. Il citato diritto viene esercitato nell’interesse della collettività o dell’appartenenza? Non è facile fornire una risposta. L’unico elemento certo è che nella prossima contesa elettorale saranno presenti non pochi giornalisti e nel pieno rispetto del dettato costituzionale. E’ immaginabile pensare che potranno aiutare, una volta eletti, a consolidare il diritto ad essere informati, sovente messo in dubbio dalle querele milionarie. La circostanza non impedisce di pensare ai modelli di giornalismo descritti di Hallin e Mancini. Quello italiano è caratterizzato da uno stretto nesso con il potere politico.
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