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La crescita, gli interrogativi e il ruolo del giornalismo

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di Gino Falleri
Non si può non dire che non sia stata una doccia gelata dopo tanti sacrifici sopportati nell’ultimo triennio e le riforme in programma. Soprattutto quella improcrastinabile della PA, che tramite regolamenti e circolari rallenta non poco le iniziative imprenditoriali, nonché della giustizia. Quest’ultima per eliminare i tempi biblici per arrivare a sentenza definitiva. Nel processo civile la dilatazione dei tempi non favorisce gl’investimenti stranieri. Troppo lunghi in caso di contenzioso per chi impiega i suoi soldi per trarne profitto.
L’Istat ha fatto sapere che l’Italia non cresce. Il suo prodotto interno lordo è sotto lo zero. Un meno due. A questa prima doccia si è aggiunta quella di Moody’s, l’agenzia americana di rating, che ha disegnato un fosco quadro, e una terza meno gelata dell’Ocse. Più possibilista sullo sviluppo. Dati e proiezioni che hanno costituito lo spunto per una immancabile presa di posizione delle forze politiche con dichiarazioni, valutazioni, proposte, ricette e i palleggi di responsabilità. Un dato comunque è certo: siamo in deflazione.
Non prevista è poi calata sulla ribalta dell’Unione una notizia che potrebbe essere considerata sorprendente per i giudizi finora formulati dalle autorità di Bruxelles alquanto restie a fare sconti a noi italiani. L’Europa rischia di ripiombare nella recessione. L’area della moneta unica è a crescita zero. La Germania - la vestale del rigore che sollecita indirettamente una patrimoniale (mano ai nostri risparmi) ed interventi sulle pensioni per ridurre il debito pubblico che abbiamo - ha registrato nel secondo trimestre di quest’anno un meno zero due mentre la Francia a sua volta non gode di buona salute come voleva far credere. Solo Olanda, Spagna e Portogallo sono in controtendenza.
Gufi o non gufi dal novembre 2011 il nostro paese non cresce. E’ un dato oggettivo, come è  altrettanto un dato da tenere nella dovuta considerazione che siamo il paese con la più alta tassazione del mondo. Oltre il 50 per cento. I numeri non sono una opinione. L’Italia non cresce per le sue ingessature da almeno un ventennio. Tra un paio d’anni la situazione dovrebbe modificarsi in meglio come ha riferito alla Bbc il ministro Padoan.
Le statistiche, sempre impietose, attestano che dal 1981 al 1990 la crescita è stata del 2,4%, superiore a quella tedesca. Con Prodi, siamo nel 2006, era del 2,2 per cento. Con Monti del meno 2,4 per cento e con Enrico Letta del meno 1,8. Infine con Matteo Renzi, presidente del Consiglio senza il placet del corpo elettorale come gli altri due, del meno 2 per cento. 
Quando l’esecutivo guidato da Berlusconi ha dovuto passare il testimone a Mario Monti - sia per la crisi economica in atto che per l’offensiva dei mercati dovuta alla lettera “strettamente confidenziale” del presidente della Bce, che aveva fatto salire lo spread a livelli più che preoccupanti (452) con la manina dell’alleato tedesco e dell’ineffabile Sarkozy - il Pil registrava un più zero virgola 4. Lo zero virgola quattro è senz’altro poca cosa, ma sempre un qualcosa di più rispetto ai governi  Monti, Letta e Renzi, che si sono avvalsi e si avvalgono della collaborazione di ministri del Tesoro che sbagliano le previsioni. Lo stesso dicasi per l’ultimo governo Berlusconi.
Una crescita non sufficiente e nulla è stato risparmiato all’allora inquilino di Palazzo Chigi, che a livello di Unione Europea doveva misurarsi con l’ostilità, sempre negata, della Merkel e di Sarkozy e con l’indifferenza del presidente del parlamento e della Commissione. Nello stesso tempo per le sue vicende personali amplificate dai media aveva perso la sua autorevolezza e soprattutto la credibilità. Non solo rispetto alla comunità internazionale, considerato inaffidabile per non aver mai dato seguito alle promesse, ma anche nei confronti di quella nazionale.
Tutto quello che aveva sostenuto di voler fare durante le campagne elettorali per motivi diretti o indiretti non era stato mantenuto. La riforma liberale era rimasta sulla carta. Come quella degli ordini professionali che costituiva uno dei punti chiave degli accordi presi con le autorità dell’Unione.  
La storia di una nazione è pure costellata di interrogativi. Non sempre tutto è cristallino, alla luce del Sole. Negli anni Sessanta un settimanale romano, Lo Specchio, diretto da Nelson Page aveva una rubrica intitolata “I misteri d’Italia” con la quale raccontava tutto quanto non rispondeva all’ordinamento. Fatti e misfatti. Da allora non molto è cambiato e di conseguenza gli eventuali interrogativi o dubbi hanno necessità di risposte.
Nei paesi democratici dovrebbero fornirle soprattutto i giornalisti, che sono i garanti del cittadino. Sono dei watchdogs. Da noi si sostiene che l’informazione è un servizio di preminente interesse pubblico e quindi i giornalisti svolgono un ruolo sociale. Tale ruolo significa stimolo e ricerca della verità. Il giornalista va, vede e racconta con l’applicazione delle tre “I”, ovvero è indipendente, irriverente ed indisponente. Non è il portavoce di nessuno. Il suo referente è solo il lettore come diceva Indro Montanelli.
Ricerca della verità stimolata dagli interrogativi che possono sorgere su quanto è accaduto nel novembre 2011. Uno riguarda la coreografia allestita ed in particolare la presenza sulla piazza del Quirinale dell’orchestrina, che ha suonato l’Alleluja di Haendel per sottolineare il compiacimento di una parte degli italiani per l’uscita di scena di Berlusconi. C’era andata di sua sponte o era stata sollecitata? Un secondo si riferisce alla scelta di affidare l’incarico a Mario Monti, professore emerito, rettore della Bocconi e personaggio di grande caratura internazionale, di guidare un esecutivo tecnico, dopo averlo nominato senatore a vita.
Interrogativo sollecitato dalla lettura dell’ultimo libro di Alan Friedman intitolato “Ammazziamo il gattopardo”. Disegna uno scenario politico ben diverso da quello fin qui conosciuto. Forse è stato sfiorato, ma non approfondito dai grandi media. Quelli che creano opinione pubblica. Quanto racconta Friedman è rispondente al vero o è una pura fantasia? Un approfondimento potrebbe essere utile se non altro perché al suo si sono aggiunti i libri di personaggi di rilievo come José Zapatero e Giulio Tremonti, che confortano lo scenario raffigurato da Friedman. 
Il primo ha dato alle stampe “El dilema, 600 dias de vertigo” mentre il secondo è autore di “Bugie e verità”. Da non tralasciare inoltre “La lunga notte dell’euro: chi comanda davvero in Europa” di Alessandro Barbera e Stefano Feltri. Infine, come ciliegina, le dichiarazioni di Tim Geithner, segretario del Tesoro degli Stati Uniti, che hanno avuto una interpretazione non univoca. Comunque alla cena del G20 di Cannes 2011 allo stesso tavolo dove era seduto l’ex premier c’era pure Obama. Quali i reali argomenti di conversazione? La sovranità, il prestito del Fmi, la Troika, il commissariamento, le dimissioni?
E’ vero che il giornalismo d’inchiesta fa pagare prezzi altissimi, ma riesce pure a far cadere i presidenti degli Stati Uniti. Fa emergere intrecci e connivenze. Da noi la professione è mortificata da irriguardose ed irridenti affermazioni, da liste di proscrizione, da un latente disprezzo e dall’insensibilità della classe politica. Eppure con tutte le difficoltà incontrate riesce a portare alla luce il malaffare della mafia e gli abusi della politica. C’è di più. Riferisce pure quanto sta accadendo al di là del Mediterraneo con i suoi addetti, che per dare consistenza al diritto di informare si sono immolati sul fronte della notizia. L’ultimo è Simone Camilli e prima di lui Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Enzo Baldoni, Antonio Russo e Fabio Polenghi, tanto per citarne alcuni. 
Sempre il giornalismo d’inchiesta, al di là di quanto sostengono le autorità di Bruxelles, potrebbe raccontare come stanno le cose, far conoscere chi sono realmente i paesi virtuosi e se il metodo politico adottato da Renzi sia fruttifero. Finora ha usato un linguaggio non protocollare con le massime autorità dell’Unione, ha tenuto testa al PPE e si dovrebbe inoltre accingere a contestare il Fiscal compact, definito da Giulio Tremonti il nuovo mostro dell’Unione. Un linguaggio alla pari che potrebbe aver dato fastidio a qualche vestale dell’Unione Europea, che in definitiva non può essere considerata alla stregua di un dogma.
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